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Renzo 
Giovane che, nato e cresciuto nel limitato ambiente del suo paese, conosce la vita solo nei suoi aspetti più semplici e consueti, la fatica del lavoro e la forza degli affetti. Rimasto orfano in giovane età, è abituato a badare a se stesso e si è creato un onesto lavoro, una sicurezza per sé e per la sposa prescelta, Lucia. Di indole buona, ha tuttavia un temperamento impetuoso, incline a scatti e a ribellioni improvvise, che hanno però la durata dei temporali di maggio, che presto vengono e presto si dissipano. Si tratta di esuberanza, più che di prepotenza. Renzo non è privo di una naturale intelligenza e furbizia che lo aiutano nei momenti critici ma che forse non bastano quando si trova immerso nei problemi al di fuori del suo paesello, perso tra le mura della città. Renzo è incline a giudicare il prossimo con ottimismo, ma quando è sicuro di essere oggetto d'ingiustizie si ribella, mettendo in moto la sua scaltrezza. Contro il rivale, Don Rodrigo, si scaglia furiosamente, ma alla fine il suo equilibrio e la sua fede in Dio lo inducono a perdonare.

Lucia 
Giovane donna, le cui caratteristiche, fisiche e morali, sono tra le meno appariscenti che ci sia dato attribuire ad un soggetto umano ed a un personaggio di romanzo. Lucia non è passiva come potrebbe sembrare, ella si oppone con tanta forza a tutto ciò che la sua coscienza nopn può approvare in modo attivo, agendo in una direzione sola, quella del bene, usando le armi della fede, della preghiera e del lavoro. Ragazza umile, del popolo, alla quale la modesta origine non impedisce di albergare nell'animo una nobiltà di sentimenti e di ideali a fare invidia a persone di più alta nascita e cultura, ella è conscia dei suoi doveri di donna e di cristiana, che una strana sorte ha portato in mezzo ad una serie di loschi intrighi, di terribili vicende. Sensibile al richiamo degli affetti e alla voce della nostalgia, preda della paura nei momenti più drammatici, non si abbandona mai alla disperazione, ma istintivamente trova dentro di sé le risorse per riacquistare l'equilibrio e la pace dello spirito.

Agnese 
Tipo medio di donna in età, come è possibile trovarne nei paesi lombardi. Il suo carattere deciso e sbrigativo, unito ad un'esperienza di vita che forse ella sopravvaluta, la porta ad una sicurezza di giudizio che non sempre si rivela esatta; la sua sollecitudine e l'amore per la figlia Lucia, velati da un riserbo proprio delle persone abituate ad una vita semplice e ridotta ai valori essenziali, la sua facilità di parola e la sua spontaneità, costituiscono un marchio inconfondibile. Profilo vivo e veritiero, riesce subito simpatica per la sollecitudine con cui si dispone ad aiutare la figlia nel raggiungimento della sua felicità. Anche se, spinta da troppa sicurezza, è portata a vedere solo una faccia della realtà, il suo ottimismo la induce ad escogitare sempre nuove soluzioni per far trionfare la giustizia e il bene di Lucia.

Padre Cristoforo 
Frate cappuccino del convento di Pescarenico, poco distante dal paese dei due promessi sposi, egli è la guida spirituale cui si affida Lucia. La sua indole ribelle, ma al tempo stesso generosa è già delineata fin da quando, non ancora frate, porta il nome di Lodovico. Abituato sin da giovane all'agiatezza e al lusso, cresce alimentando un'abituale fierezza che lo porta, come il padre, a scagliarsi contro l'ostilità del mondo aristocratico e vanesio, conducendo una guerra aperta contro i suoi rivali e schierandosi a fianco dei deboli che avessero subito da essi un sopruso. Questo suo atteggiamento lo porterà al famoso duello dal quale uscirà con la convinzione della sua vocazione. La figura del frate grandeggia, non come quella di un essere superiore, ma come quella di un uomo tra gli uomini, che ha vissuto le sue esperienze e ha formato il suo carattere proprio in mezzo al complicato mondo seicentesco. In lui, immagine viva e vera, si può vedere il simbolo dell'eterna lotta tra il bene e il male, tra forza materiale e forza spirituale che, sorretta da una fede senza confini, è destinata a trionfare. Quello che egli prima operava a servizio di una giustizia umana, ora opera a servizio di quella divina e proprio in questa continuità risiede la reale umanità del personaggio. L'ultima immagine che abbiamo di lui, con i segni della fine sul volto, è quella al lazzaretto, a servire i bisognosi come in tutta la sua vita.

Cardinal Federigo 
All'epoca della vicenda è Arcivescovo di Milano e lo troviamo in visita al paese dell'Innominato nei giorni di Pentecoste. Uomo dotato di eccezionali risorse di volontà, intelligenza e zelo religioso, egli sa veramente applicare alla vita i principi della religione cattolica, offrendo sempre un valido esempio del bene operare. Modesto, frugale, umilissimo, deve lottare contro il suo stesso ambiente per affermare i suoi principi e dedica tutta la sua vita alla carità e allo studio, tanto da essere considerato uno degli uomini più dotti del secolo. La solennità del personaggio scaturisce dall'attesa del paese in festa, il suo valore dai colloqui, prima con l'Innominato, poi con Don Abbondio, la sua modestia e umiltà dall'incontro con Lucia, con la gente del paese e con i bambini. Lo ritroviamo, più tardi, ad aiutare la popolazione durante la carestia e la peste. A differenza degli altri "buoni" del romanzo, per i quali la bontà è una conquista, egli è libero umanamente da ogni debolezza, integro, grande, perfetto.

Innominato 
L'Innominato è una delle figure psicologicamente più complesse e interessanti del romanzo. Personaggio storicamente esistito nel quale l'autore fa svolgere un dramma spirituale che affonda le sue radice nei meandri dell'animo umano. L'Innominato, figura malvagia la cui malvagità più che ripugnanza forse incute rispetto, è il potente cui Don Rodrigo si rivolge per attuare il piano di rapire Lucia. In preda a una profonda crisi spirituale, l'Innominato scorge nell'incontro con Lucia un segno, una luce che lo porta alla conversione; solo in un animo simile, incapace di vie di mezzo, una crisi interiore può portare a una trasformazione integrale. Durante la famosa notte in cui Lucia è prigioniera nel castello, la disperazione dell'Innominato giunge al culmine, tanto da farlo pensare al suicidio, ma ecco che il pensiero di Dio e le parolo di Lucia lo salvano e gli mostrano la via della misericordia e del perdono.

Don Rodrigo 
Signorotto invaghitosi di Lucia che, solo per capriccio, vuole avere per sé. Egli rappresenta l'espressione umana e il simbolo del suo secolo; non riveste una carica particolare, ma è uno dei tanti nobilotti dell'epoca, uno qualsiasi. Il suo carattere, per niente deciso e fermo, riflette passivamente e fedelmente le magagne e le ingiustizie sociali dell'epoca in cui è chiamato a vivere. Di lui non viene data una descrizione vera e propria, né fisica né morale, sebbene sia lui il responsabile di tutta la vicenda; noi lo conosciamo attraverso i simboli e gli attributi della sua forza e della sua autorità, il suo palazzo, i suoi servi e le sue azioni. Cattivo genio di tutta l'azione, sicuro che la sua posizione sociale e gli appoggi di persone influenti gli garantiscono l'impunità, conosce solo una legge, quella del più forte. Pur essendo malvagio, non ha il coraggio delle sue azioni, preoccupato dalle conseguenze che esse hanno. Dopo le minacce di Padre Cristoforo, probabilmente rinuncerebbe volentieri al piano malvagio, ma persevera solo per questione di puntiglio e orgoglio vedendosi costretto a ricorrere all'aiuto di chi è più malvagio di lui, di chi veramente sa fare il male, l'Innominato. Purtroppo la conversione di quest'ultimo capovolge la vicenda e Don Rodrigo sarà cpstretto ad andarsene, a nascondersi, fino a quando la peste non lo coglierà e lo condurrà alla morte nel lazzaretto di Milano.

Don Abbondio 
Curato del paese di Renzo e Lucia, dovrebbe unirli in matrimonio ma, minacciato da Don Rodrigo, cerca di evitare a tutti i costi di celebrare le nozze e lo farà solo alla fine del romanzo, quando ogni pericolo sarà svanito. La vita di Don Abbondio si svolge tutta nell'orbita di Don Rodrigo e sotto l'influsso del suo principale difetto, la paura. La sua storia non è altro che la storia della sua paura e di tutte le manifestazioni attraverso le quali essa si rivela. Gretto, meschino, egoista fino all'impossibile, non è uomo cattivo, ma nemmeno buono; egli vive come in un limbo tormentato dalla paura; vede ostacoli e insidie anche dove non ci sono e l'angoscia e la preoccupazione di riuscire ad uscirne indenne lo rende incapace di prendere posizione tra il bene e il male. Anche quando, per un breve attimo, le parole del Cardinale, sembrano risvegliare in lui una luce, questa non riesce a giungere agli strati superiori della sua coscienza. Il suo carattere, oltre a creare vari spunti di comicità, non è privo di una certa grettezza che egli rivela per la soddisfazione dello scampato pericolo.

Gertrude 
La monaca di Monza, che accoglie Lucia nella sua fuga dal paese natio per sfuggire a Don Rodrigo, è un personaggio che l'autore descrive ampiamente come se nel racconto della vita della donna egli cerchi in qualche modo di trovare una giustificazione al male da lei fatto e al male che ancora farà. La vocazione imposta e non scelta rende Gertrude donna infelice e soggetta a peccare ma allo stesso tempo in ogni suo gesto si ravvisa come un senso di colpevolezza che serpeggia in mezzo ai grovigli e alle passioni che agitano il suo spirito. E' proprio questo sordo conflitto tra abiezione e senso di colpa che danno al personaggio della Monaca di Monza la sua tragicità. Ella non ha ancora superato i problemi che aveva da bambina, problemi nati dal vedersi negare la vita cui era destinata per la sua indole e dal non essere stata capace di lottare per far valere i suoi desideri. L'invidia che provava da bambina per le sue compagne più fortunate di lei la prova ancora per chi, come Lucia, conduce una vita nel mondo a lei precluso e tale invidia la porta a compiangersi e a vendicarsi come può, usando la sua autorità e compiendo il male.
 
Capitolo I
Una sera del mese di novembre 1628, su una stradina lungo la sponda del lago di Como, cammina un frate, don Abbondio. Mentre cammina ha alcuni pensieri che vengono improvvisamente interrotti dall’apparizione di due bravi, due brutti tipi al servizio di un signorotto spagnolo molto potente.
Dopo avere descritto le caratteristiche dei bravi, Manzoni comincia a raccontare il colloquio tra i bravi e don Abbondio: i bravi dicono al curato che, in nome del loro potente padrone, don Rodrigo, il matrimonio fra Renzo e Lucia “non s’ha da fare!”. Don Abbondio, impaurito, assicura la propria fedeltà al potente signore spagnolo promettendo che non celebrerà il matrimonio, già fissato.
Questo atteggiamento debole viene visto alla luce della giustizia del seicento, dove le minacce sono frequenti e non sono mai punite, e viene sottolineata la natura debole e paurosa del curato.
Conclusa questa riflessione del poeta, si torna alla narrazione con il ritorno a casa del curato, che racconta il suo incontro alla sua serva, Perpetua.

Capitolo II
La notte per il curato trascorre tormentata, ma gli dà il tempo di predisporre un piano per accontentare  don Rodrigo: quelle nozze devono essere rinviate . Intanto bisogna  respingere il primo attacco, quello di Renzo che viene di buon mattino per concordare l'ora del matrimonio. La data era stata decisa da tempo dallo stesso Don Abbondio che dapprima si finge sorpreso, poi inventa  una serie di scuse di ordine amministrativo: non aveva  preparato in tempo tutti gli atti prescritti dalla Chiesa. Comunque non era un dramma irreparabile rimandare di alcuni giorni.   Renzo esce dalla casa del curato molto nervoso, ma fuori è ad aspettarlo Perpetua, la quale non vede l'ora di dirgli tutto . Perpetua dice a Renzo la vera causa del rinvio .Così Renzo si precipita nella stanza del curato e  si fa dire  il nome dell'uomo che si oppone al matrimonio. Sconsolato, Renzo si reca quindi da Lucia per comunicarle il fatto grave. Gli invitati sono allontanati con la scusa che il matrimonio non si fa per malattia del curato. Invero don Abbondio, minacciato prima dai bravi poi da Renzo, si fa venire la febbre. Intanto nella sua casa tutto è sbarrato come se  fosse  imminente  un attacco.  Perpetua ,affacciatasi ad una finestra, confermava a tutti la notizia della malattia Don Abbondio..

Capitolo III
Lucia, rimasta sola con la madre e con Renzo, racconta di avere suscitato l’interesse di don Rodrigo, e allora i tre decidono di rivolgersi ad un avvocato, l’Azzecca-garbugli.
L’avvocato, durante l’incontro con Renzo, pensa, sbagliando, che invece di avere subito un torto, è Renzo un bravo che ha fatto qualcosa di brutto e che cerca di evitare la punizione andando da un avvocato. Perciò pensa di aiutarlo, ma quando scopre che invece Renzo è la vittima di don Rodrigo, allora rifiuta l’incarico e non gli da neanche spiegazioni, perchè si spaventa della potenza di don Rodrigo.
Intanto Lucia insiste con la madre per parlare con fra Cristoforo, un frate cappuccino in cui ha molta fiducia. Mentre le due donne pensano come fare a parlare con fra Cristoforo, arriva fra Galdino, che chiede delle noci per il suo convento e che racconta alle donne una fiaba. Lucia decide di dare a fra Galdino un messaggio per fra Cristoforo.
Ritorna Renzo, deluso per l’incontro con l’avvocato, e le due donne cercano di calmarlo e gli dicono che hanno chiesto l’intervento di fra Cristoforo. Intanto è già sera e i tre devono separarsi.

Capitolo IV
Padre Cristoforo esce dal convento del paese di Pescarenico, un piccolo villaggio di pescatori nei pressi di Lecco. Sebbene il paesaggio autunnale sia splendido, il cammino del frate verso casa di Lucia è reso infelice dalle immagini di miseria lungo il percorso: persone povere, animali smagriti dalla fame, mendicanti laceri. Lui era un uomo vicino ai 60 anni, dalla lunga barba bianca, umile ma con due occhi molto vispi. Lodovico ( nome di fra Cristoforo prima di prendere i voti), figlio di un ricco mercante, viene educato in maniera aristocratica. Non essendo però visto bene nel gruppo dei nobili, inizia a difendere gli umili a dispetto dei prepotenti. Un giorno per strada, scoppia una disputa tra Lodovico ed un nobile arrogante. Nel corso della disputa , il giovane, vedendo gravemente ferito Cristoforo, il suo più fedele servitore, colpisce a morte il signorotto. Di conseguenza viene fatto rifugiare nel vicino convento , affinché potesse trovare riparo dai parenti dell'ucciso. Il convento viene circondato.Durante la sua permanenza in convento Lodovico matura la decisione di farsi frate. Dà i suoi beni alla famiglia del servo Cristoforo che era morto per lui e assume il nome di fra Cristoforo. Alla fine i frati convincono i nobili ad accettare sotto segno di pentimento la scelta monacale di Ludovico.Fra Cristoforo chiede ed ottiene di domandare scusa alla famiglia dell'ucciso in modo da scagionare anche i suoi parenti.
Fra Cristoforo ottiene un sincero perdono da tutti e induce i presenti a mitigare la loro superbia. Oltre a predicare e assistere i moribondi, fra Cristoforo opera per rimuovere le ingiustizie e per difendere gli oppressi.
Intanto il frate, giunto alla casa di Lucia e Agnese, viene accolto con gioia dalle due donne.

Capitolo V
Padre Cristoforo, dopo aver parlato con le due donne, capisce che qualcosa di grave era accaduto. Intanto arriva anche Renzo molto esasperato minacciando di farsi giustizia da solo ma Lucia coi suoi modi riesce a calmarlo.Decide di recarsi da don Rodrigo per convincerlo a desistere dal suo proposito con l'aiuto di Dio. Si reca al palazzo del signorotto, dove è ricevuto nella sala da pranzo: è in corso infatti un banchetto, cui il padrone di casa ha invitato un suo cugino, il conte Attilio, e alcuni personaggi importanti del paese, come il dottore Azzeccagarbugli ed il Podestà. Si discute della guerra in corso per la successione del ducato di Mantova, si brinda all'abbondanza (mentre nelle campagne infuria la fame) e si disserta su futili questioni d'onore. Padre Cristoforo è chiamato a dir la sua mentre gli viene offerto del vino. Dopo Don Rodrigo,che sa già del motivo della visita,chiede licenza agli ospiti per intrattenersi con il padre Cristoforo.

Capitolo VI
Finalmente don Rodrigo riceve il frate in disparte. Padre Cristoforo accusa il signore di perseguitare Lucia e gli minaccia la vendetta di Dio. Don Rodrigo scaccia il frate che prima di lasciare il palazzo ha la promessa di un vecchio e buon servitore che sarà avvertito degli eventuali progetti infami del suo padrone. Intanto, in casa di Lucia, Agnese espone ai due giovani un suo progetto: quello di strappare il matrimonio a don Abbondio, presentandosi a lui con due testimoni e dichiarando l'intenzione di sposarsi. Sembra che secondo l'uso il matrimonio sarà così ugualmente valido. Lucia è riluttante; Renzo, entusiasta, esce in cerca dei due testimoni e li trova in Tonio, cui promette di pagare un debito che costui ha col curato, e nel fratello di lui, Gervaso.

Capitolo VII
Padre Cristoforo annuncia desolato alle due donne il fallimento della sua missione. Furore di Renzo, Lucia acconsente per la furia di Renzo all'idea di andare con lui dal curato. Intanto nel paese si vede gente strana, e un mendicante va alla casetta di Lucia a chiedere l'elemosina con l'aria di esplorare il luogo e un altro per domandare la strada. Sono gli uomini di don Rodrigo che studiano il modo di rapire Lucia, agli ordini del capo dei bravi, il Griso. A sera, i due giovani, Agnese e i testimoni ,Tonio e Gervaso, s'avviano in silenzio verso la casa di don Abbondio per costringerlo ad acconsentire al matrimonio. Arrivati,Renzo e Lucia si nascondono,mentre Agnese bussa alla porta.Si affaccia Perpetua e protesta per l'ora tardi,ma, non appena sente che Tonio era andato per pagare un debito,acconsente dopo essersi consultata con don Abbondio.

Capitolo VIII
È il capitolo della «notte degli imbrogli», che comincia col fallimento del tentativo di matrimonio «a sorpresa»; don Abbondio, con furia inusitata, si libera degli intrusi e dà l'allarme: il campanaro Ambrogio, credendo la canonica invasa dai ladri, suona la campana a martello. Mentre il gruppo di Renzo cerca scampo per la campagna, altrettanto sorpresi dall'allarme sono i bravi in azione per rapire Lucia e che hanno trovato vuota la sua casa. E così anche un ragazzetto, Menico, che padre Cristoforo, avvertito dal vecchio servitore, ha mandato alla casa delle due donne a scongiurarle di correre da lui. Il ragazzo è bloccato dai bravi, che tuttavia, spaventati dalla campana, lo lasciano libero. Così Menico riesce a incontrare il gruppo di Renzo e ad avvertire i fuggitivi di recarsi al convento.
Tra i due gruppi in fuga, s'inserisce l'agitazione del paese che, svegliato, non riesce a capire che cosa stia succedendo. Renzo e le due donne giungono al convento dove trovano già organizzata da padre Cristoforo la loro fuga dal paese, per sottrarsi alle minacce di don Rodrigo. Le due donne andranno a Monza, Renzo a Milano, muniti di lettere di presentazione per cappuccini, amici del padre. I fuggiaschi s'imbarcano e in piena notte attraversano il lago.

Capitolo IX
Renzo, Lucia e Agnese raggiungono la parte orientale del lago di Como, poi Monza, e lì si separano. Renzo va a Milano, le donne al convento dei cappuccini, dove incontrano il padre guardiano, al quale fra Cristoforo le ha raccomandate. Si dirigono quindi al monastero di Santa Margherita, dove vive una monaca di nobile famiglia che ha molti privilegi. L’aspetto fisico della monaca non è proprio quello di una religiosa e cosi Manzoni racconta la sua storia, che continua anche nel capitolo X.
Geltrude, figlia di un nobile spagnolo, è destinata fin da piccola a vita religiosa. Da piccola non si oppone, ma poi prova a ribellarsi. Ma la reazione dei parenti è dura, con una specie di guerra psicologica basata soprattutto sul silenzio. Allora Geltrude dichiara di accettare il volere dei suoi genitori.

Capitolo X
Geltrude viene ricevuta dal padre, che ritiene che la ribellione della figlia sia gravissima, e le impone di farsi monaca. Da questo momento la sua vita cambia: prima era rifiutata dai parenti, ora è circondata di affetto; prima era sola e prigioniera, adesso può fare tutto in libertà. Comincia la sua vita religiosa, e ogni volta che potrebbe ritirarsi non ha il coraggio di farlo. Diventa così monaca. Ma non è contenta e si dispera. Ha una relazione con un vicino, Egidio, e per nasconderla arrivano a commettere un omicidio.
Conclusa la storia della monaca di Monza, tornano in scena Lucia e Agnese, che vengono accolte da Geltrude con molta generosità. Ma don Rodrigo prepara già una vendetta.

Capitolo XI
Don Rodrigo, attendendo con inquietudine il ritorno dei bravi, pensa alle possibili conseguenze del rapimento di Lucia, ma sa di non correre grossi rischi. Al suo ritorno, Griso annuncia il fallimento della spedizione e riceve severi rimproveri da Don Rodrigo. Dopo aver discusso dei fatti della nottata, i due concordano una strategia per scoprire se vi siano state fughe di notizie sul progetto di rapimento. Il conte Attilio viene informato dal cugino del fallito rapimento di Lucia e attribuisce la responsabilità a fra Cristoforo. I due cugini stabiliscono poi di intimorire il console del villaggio, di convincere il podestà a non intervenire, e di far pressioni sul Conte zio, affinché faccia trasferire il frate.
Il Griso si reca in paese per cercare di comprendere ciò che è successo la notte precedente. Nel villaggio c'è un fitto intrecciarsi di voci: tutti i protagonisti di quei fatti turbolenti commentano l'accaduto. Il bravo riferisce al padrone quelle voci e insieme escludono l'ipotesi di una spia interna al palazzotto. Al termine del colloquio, don Rodrigo incarica il proprio uomo di fiducia di scoprire dove si sono rifugiati Renzo e Lucia. Grazie alle chiacchiere del barocciaio, passate di bocca in bocca, il bravo è in grado di informare il suo signore che Lucia si trova a Monza. Il nobile incarica allora il sicario di proseguire là le ricerche: il Griso, che proprio in Monza è maggiormente ricercato dalla giustizia, cerca di sottrarsi, ma alla fine obbedisce agli ordini. Renzo, colmo di tristezza per la separazione da Lucia e per la partenza dal paese, procede verso Milano. Giunto alle porte della città chiede ad un passante indicazioni per raggiungere il convento cui è destinato.Entrato in città, il giovane scopre con sorpresa della farina e del pane gettati a terra. Pur con timore raccoglie tre pani. Proseguendo poi verso il centro della città, incontra parecchia gente che trasporta affannosamente pane e farina. Viene colpito dalla vista di una famigliola particolarmente impegnata nel trasporto. Il giovane comprende finalmente che è in atto una rivolta e che la gente sta dando l'assalto ai forni: la sua prima sensazione è di piacere. Renzo decide di star fuori dal tumulto e si reca al convento, ma il frate portinaio gli nega l'ingresso. Il giovane va così a curiosare tra la folla e si lascia attrarre dal tumulto.

Capitolo XII
Per colpa della carestia provocata  da raccolti scarsi, sprechi per la guerra ( successione per il Ducato di Mantova)e pressione fiscale, ci sono aumenti , soprattutto del pane, che provocano il malcontento popolare.
Il gran cancelliere spagnolo ha dato l’ordine di diminuire il prezzo provocando le proteste anche dei fornai costretti a lavorare in perdita .Così il governatore Don Gonzalo rincara il prezzo del pane mandando in bestia il popolo . Prende così avvio il tumulto di San Martino e i forni sono devastati a sacco. La massa si dirige poi verso il forno "delle grucce"  rubando pane,  denaro,  distruggendo ogni cosa. Renzo, incuriosito da tutto quel movimento, si dirige verso quella zona ascoltando i pareri  dei presenti e assistendo al falò in piazza d’ogni cosa. Arriva poi la notizia di nuovi disordini al Cordusio ove c’è gente armata a difesa. 
La folla è incerta sul da farsi , è indecisa e delusa; si muove allora ,come sospinta da una forza estranea, passando sotto la statua di Filippo II, per dare l'assalto alla casa del vicario di provvisione ,  responsabile della scarsità di cibo. Renzo, si lascia coinvolgere senza volerlo dalla folla.

Capitolo XIII
La folla inferocita si dirige verso il palazzo del vicario,che aiutato dai servi, riesce a barricarsi in casa e a nascondersi in uno stanzino.Alcuni rivoltosi tentano di scardinare  la porta del vicario per  ucciderlo e tutto questo davanti ai soldati spagnoli, che fanno fanno finta di niente. Renzo, al centro del tumulto, è tra coloro che si oppongono a una giustizia sommaria. Per questo, dopo aver reagito con sdegno alle proposte sanguinarie di un vecchio, rischia il linciaggio. Dal fondo della piazza fa la sua apparizione il gran cancelliere Antonio Ferrer, il quale, forte del sostegno popolare, interviene per salvare il vicario. Nella folla si creano due fazioni, l'una favorevole e l'altra ostile all'intervento di Ferrer. Il cancelliere procede in carrozza attraverso la piazza gremita di gente. Alcuni, tra cui Renzo, si adoperano affinché egli possa avanzare, anche se con continue fermate. Ferrer promette alla folla di arrestare il vicario e di abbassare nuovamente il prezzo del pane, ma il lettore comprende che le sue promesse non verranno mantenute. Ferrer riesce infine ad entrare nel palazzo del vicario e a trarre in salvo quest'ultimo. Fattolo poi salire sulla propria carrozza, si dirige verso il "castello" continuando a blandire la folla. Scampato il pericolo di un linciaggio, Ferrer comincia a temere per le reazioni dei propri superiori, mentre il vicario, ancora molto spaventato, annuncia di volersi ritirare in un grotta.
 
Capitolo XIV
La folla ora non è più compatta: si dirada e si ricompone in piccoli capannelli a commentare e a prevedere. Si parla dell'accaduto, delle ragioni che vi stanno sotto, si manifestano propositi di ritorno per il giorno seguente. Renzo,come in una sorta di eccitazione, quasi di ubriachezza, al centro di un crocchio prende la parola e dal fatto milanese risale al fatto personale: parla ad alta voce di ingiustizia, di prepotenze di certi tiranni, del tutto dissimili da Ferrer, manifesta propositi di vendetta e di pulizia, avanza la proposta del tutto rivoluzionaria dell'alleanza di tutto il popolo per la restaurazione della giustizia. Tutti applaudono. Ma ormai è buio: la gente si dispone a tornare a casa. Renzo da uno che gli si è messo alle costole e che gli si dimostra premuroso (è un informatore della polizia) si fa accompagnare in una trattoria vicina: li può mangiare e dormire. A tavola lo sbirro cerca di farlo parlare e di fargli dire nome e cognome: non c'era riuscito l'oste. Ma lui lo fa cadere in un tranello, favorito anche dal fatto che Renzo da uno stato di esaltazione passa, per il molto vino che beve, ad uno stato di effettiva ubriachezza. Sproloquia e nelle sue parole in modi oscuri ed incerti torna l'immagine di don Rodrigo, il persecutore, l'ingiusto e prepotente tiranno che lo ha indotto alla fuga dal suo paese. Finalmente l'oste riesce a portarlo in camera e a buttarlo sul letto.

Capitolo XV
Renzo, essendo  ubriaco, abbandona la sala dell'osteria, tra saluti e risa. Con l’aiuto  dell'oste raggiunge poi la sua camera .L'oste tenta nuovamente di far declinare a Renzo le proprie generalità, ma alle nuove proteste rinuncia. L'oste decide di andare al palazzo di giustizia per denunciare Renzo . Arrivato , denuncia al notaio criminale la presenza nella sua osteria di un giovane che non ha voluto rivelare le generalità. Il funzionario, che conosce già il nome di Renzo, mostra però di non accontentarsi delle informazioni fornite dal padrone dell'osteria e sottopone l'uomo ad un  interrogatorio.
Il notaio criminale e due birri penetrano nella camera di Renzo e gli dicono di seguirli. Intimorito dal rumore che viene dalla strada e che sembra annunciare nuovi tumulti, il notaio abbandona subito l'atteggiamento autoritario e, con le buone, cerca di indurre Renzo a seguirli. Il funzionario si mostra eccessivamente gentile ed afferma che si tratta di una pura formalità, ma il giovane non gli presta fede e comincia ad elaborare un piano per essere liberato dalla folla.
 Il giovane chiede aiuto. Per sfuggire al linciaggio, i birri e il notaio, abbandonano il prigioniero e si confondono tra la folla.

Capitolo XVI
Sfuggito agli sbirri, Renzo percorre le strade di Milano con animo preoccupato e diviso. Vorrebbe chiedere informazioni sulla via che conduce alla porta che immette sulla strada per Bergamo, ma teme di essere riconosciuto o di imbattersi in un nuovo birro. Alla fine ci riesce e ,ottenuta l'informazione giusta, attraversa la porta senza che da parte delle guardie ci sia opposizione. Presa la strada che conduce a Bergamo, cerca di evitare il percorso principale: non si sa mai. Di conseguenza la marcia di avvicinamento a Bergamo o meglio al confine si fa lunga, nervosa, massacrante. Ha bisogno di mangiare e si ferma a Gorgonzola, in un'osteria che gli pare rassicurante. A Milano nello stesso tempo arriva un mercante, uno di quei rappresentanti di commercio che sono pieni di notizie e che frequentano sempre gli stessi posti. L'oste e gli altri commensali che inutilmente avevano cercato di ottenere informazioni da Renzo, ottengono notizie particolarmente minute e colorate dal mercante. C'è un punto del racconto che desta l'attenzione di Renzo: il mercante dice che dietro il tumulto c'era una congiura, che la mattina era stato ancora una volta tentato l'assalto della casa del vicario, che era stato saccheggiato il forno del Cordusio, che parecchi malintenzionati erano stati arrestati, che era stato preso un capo dei rivoltosi, ma che dopo, aiutato dai suoi, era riuscito a scappare. Ricercato Renzo sa che ora, se trovato e preso, non c'è per lui altro che la forca. Sono bocconi amari per lui, cui s'aggiunge la rabbia non solo di non essere stato capito ma di essere descritto come un delinquente, di quelli più colpevoli. Esce e s'avvia verso il confine, segnato dall'Adda: è tanto sconvolto che non chiede informazioni a nessuno. Si affida alla Provvidenza e parte.

Capitolo XVII
Uscito dall'osteria di Gorgonzola, Renzo prosegue il suo cammino nell'oscurità, lungo le strade verso l’Adda. Durante il tragitto, i suoi pensieri vanno al mercante e al suo resoconto  calunnioso. Dopo  alcuni paesi , Renzo si inoltra in una zona non coltivata e poi in un bosco. Qui viene colto da un oscuro timore, ma sente il rumore dell'Adda e si precipita verso il fiume. Non potendo attraversare il fiume,  si rifugia in una capanna abbandonata. Tenta di addormentarsi, ma alla sua mente si affacciano ricordi dolorosi. Verso le sei del mattino  riprende il cammino verso l'Adda. Traghettato da un pescatore , passa sulla sponda di Bergamo dirigendosi  verso il paese del cugino.Giunto nel paese di Bortolo, Renzo individua immediatamente il filatoio e lì trova il cugino, il quale lo accoglie festosamente, dichiarandosi disposto ad aiutarlo. I due cugini si informano reciprocamente sulla rispettiva situazione e sulle vicende politiche dei propri paesi. Dopo essere stato avvertito dell'uso bergamasco di chiamare baggiani i milanesi, Renzo viene presentato al padrone del filatoio e assunto come lavorante.

Capitolo XVIII
Al paesello, gli sbirri ricercano inutilmente Renzo. Don Rodrigo apprende così le disavventure del suo rivale; e intenzionato sempre di più a rapire Lucia, pensa di ricorrere a un uomo più potente di lui per giungere al rifugio della ragazza. Agnese, preoccupata per la mancanza di notizie, cerca anch'essa Renzo al paese, dove apprende che padre Cristoforo è stato trasferito a Rimini.

Capitolo XIX
Responsabile della sua partenza è il conte Attilio, che a Milano è riuscito a convincere il conte zio, importante personaggio, a chiedere al padre provinciale dei cappuccini l'allontanamento del frate per una missione di parecchi mesi. Don Rodrigo agisce a sua volta recandosi dal potente signore che lo aiuterà a rapire Lucia, l'Innominato.

Capitolo XX
Don Rodrigo convince all'impresa l'Innominato che manda il capo dei suoi bravi, il Nibbio, da quell'Egidio, che sa in relazione con la monaca di Monza. Gertrude, sollecitata dall'amante, fa uscire con una scusa Lucia dal convento, sicché i bravi, guidati dal Nibbio, possono rapirla e portarla al castello del loro signore.
Capitolo XXI
Il racconto che il Nibbio fa al padrone sul rapimento di Lucia scuote l'Innominato già da tempo scontento della sua vita; le lacrime di Lucia lo turbano. Durante la notte, mentre la ragazza fa voto di consacrarsi alla Madonna se verrà liberata, egli è assalito da una profonda crisi che lo spinge a meditare il suicidio. Ma all'alba sente suonare le campane nella valle e si alza con propositi nuovi. È questo il capitolo della giustamente famosa «conversione dell'Innominato».

Capitolo XXII
L’innominato, viene informato da un bravo che tutta quella gente, così festosa, va verso un paese vicino, per vedere il cardinale Federigo Borromeo, arcivescovo di Milano. La popolarità, il rispetto e la venerazione che il popolo dimostra verso il cardinale, fa nascere nell’innominato la speranza, parlandogli " a quattr’occhi, " che egli possa curare il suo spirito tanto in crisi, che possa pronunciare parole rasserenatrici. Presa, quindi, la decisione di parlare con il cardinale, si reca prima nella camera di Lucia, che intanto sta dormendo in un cantuccio; rimprovera la vecchia, per non aver saputo convincere Lucia a dormire sul letto, le raccomanda di lasciarla riposare in pace, e di riferirle, quando si sarà svegliata " che il padrone è partito per poco tempo, che tornerà e che... farò tutto quello che lei vorrà. ". E’ superfluo dire che la donna resta sbalordita per lo strano e insolito comportamento del suo padrone, che intanto mette di guardia un bravo, davanti alla porta della camera di Lucia, perché nessuno la disturbi; quindi, risoluto, si dirige verso il paese, dove si trova il cardinale; e giuntovi, avuta indicazione che egli si trova in casa del curato, va là, entra in un cortiletto, dove sono riuniti molti preti che lo guardano con aria di meraviglia e di sospetto, e chiede di voler parlare al cardinale. Prima che si svolga il colloquio tra l’innominato e l’arcivescovo, l’autore traccia un profilo di Federigo Borromeo; la descrizione, fatta con calore in tutta la sua splendida grandezza, risulta veramente efficace. Ancora giovinetto, manifestata la vocazione di dedicarsi al ministero ecclesiastico, oltre a dedicarsi alle occupazioni prescritte, decide di sua spontanea volontà " di insegnare la dottrina cristiana ai più rozzi e derelitti del popolo, e di visitare, servire, con­solare e soccorrere gl’in fermi. ". Quantunque discenda da nobile famiglia, tutto il suo comportamento è improntato alla più servile umiltà; teme le dignità, anzi cerca di evitarle, non per sottrarsi al servizio altrui, ma perché non si stima " abbastanza degno, né capace di così alto e pericoloso servizio". Poco più che trentenne, infatti, ricusa l’arcivescovado di Milano, successivamente costretto ad accettare su ordine del papa. Riduce al minimo le sue esigenze, ed offre tutto ai poveri; per lui, infatti, " le rendite ecclesiastiche sono patrimonio dei poveri". E’ merito suo la fondazione della biblioteca ambrosiana. Ma quel che più spicca in lui è la bontà, la giovialità, la cortesia verso gli umili. Quanto scrive il Manzoni, per magnificare questo uomo di virtù predare, non è un parto di fantasia, ma realtà evidente, tanto è vero che riuscirà a convertire, come per grazia divina, chi si era macchiato di tanti infami crimini: l’innominato.

Capitolo XXIII
Incontro tra l'Innominato e Federigo e abbraccio di riconciliazione. Il cardinale, conosciuta la vicenda di Lucia, fa chiamare don Abbondio, presente con gli altri parroci della zona. e gli dà l'incarico di provvedere al recupero della ragazza. Viaggio di don Abbondio, terrorizzato, in compagnia del terribile signore, fino al castello.
Capitolo XXIV
Lucia è liberata e condotta provvisoriamente in paese, nella casa di un buon sarto, dove subito giunge Agnese e poco dopo il cardinale, cui Agnese racconta le loro vicende. L'Innominato, al castello, avverte i suoi uomini che potranno restare al suo servizio solo se intenzionati come lui a mutar vita.

Capitolo XXV
Don Rodrigo pensa bene di lasciare il paese e tornarsene a Milano, prima d'essere costretto a incontrare il cardinale. Il prelato viene accolto da don Abbondio al quale chiede informazioni su Renzo. Lucia viene ospitata da una ricca signora, donna Prassede, col beneplacito del cardinale, il quale finalmente chiede a don Abbondio perché non abbia celebrato le nozze dei due giovani.

Capitolo XXVI
Celebre dialogo tra Federigo e don Abbondio, che sembra ravvedersi, anche se non nasconde le sue buone ragioni. L'Innominato regala a Lucia una dote di cento scudi d'oro; ma ad Agnese che porta alla figlia la buona notizia, Lucia rivela il voto fatto la notte del rapimento. Decidono così di mandare metà della somma a Renzo e di pregarlo di non pensar più al matrimonio. Ma non riescono a mettersi in comunicazione con lui: il giovane ha mutato il proprio nome in quello di Antonio Rivolta e ha cambiato filanda.

Capitolo XXVII
La guerra per la successione del ducato di Mantova, che aveva visto di giorno in giorno l'Italia settentrionale coinvolta nella guerra europea che prende il nome di guerra dei trent'anni, impegnava del tutto l'attenzione del governatore don Gonzalo. Temeva questi che anche Venezia volesse scendere in campo contro la Spagna: bisognava cercare di distoglierla facendo la voce forte contro la Repubblica veneta. E l'occasione fu fornita a don Gonzalo dalla notizia che Renzo si era rifugiato nel territorio bergamasco. Di qui la finzione delle ricerche condotte per accertare se Renzo era veramente a Bergamo. Era una formalità: Renzo diventò una pratica burocratica. Il potere, di lui non s'accorse, perché era sola un pretesto. Ma Renzo, pur cambiando residenza e nome, continuava a nascondersi: sapeva per esperienza che del potere politico non ci si poteva fidare. Una sola cosa lo tormenta: quella di mettersi in contatto con Agnese e Lucia. Riesce a trovare una fidata trafila e un giorno riceve insieme con una lettera di Agnese cinquanta scudi: Lucia, era detto nella lettera, non poteva sposarlo più perché aveva fatto voto di castità. Si mettesse il cuore in pace e attendesse agli affari suoi. Cosa che Renzo si dichiarò non disposto a fare. Il suo unico proposito ora sarebbe stato di indurre Lucia al matrimonio. Lucia, intanto, aveva trovato ospitalità in casa di donna Prassede, una donna che poco poteva sul marito, don Ferrante, un intellettuale che da lei si difendeva chiudendosi tra i suoi libri. Così donna Prassede sfogava la sua volontà di strafare e la sua voglia di fare del bene ad ogni costo (ma il bene coincideva stranamente col suo concetto piuttosto storto di bene) alle persone come Lucia che si erano lasciate traviare. Non altrimenti si poteva e doveva spiegare l'innamoramento della giovane per uno come Renzo che per poco era sfuggito alla forca e che sicuramente doveva essere un poco di buono, se era ricercato dalla polizia. Pensiero dominante di donna Prassede era di liberare la mente di Lucia dall'immagine di Renzo e perciò a lei parlava spesso e in termini duri ed ingiusti: Lucia per forza di cose doveva difenderlo da tanta aggressività e così il suo Renzo se lo confermava sempre più dentro. E sempre più intensamente l'immagine di lui l'assediava, sempre come risultato dei metodi educativi di donna Prassede. Nulla c'era da temere dal marito di lei, don Ferrante, un letterato di grande classe: aveva tanti libri e la sua attenzione si fermava su scienze come l'astrologia e la duellistica, dove era diventato un'autorità. Era il tipo di letterato astratto, inutile, formalistica, che non sa legare scienza e realtà, cultura e società.

Capitolo XXVIII
Questo è un capitolo, in cui il Manzoni abbandona di nuovo i suoi personaggi, per tracciare un quadro storico degli avvenimenti successivi alla sedizione di San Martino, che ebbe come conseguenza un ribasso del prezzo del pane; un ribasso che risultò fatale, in quanto la plebe, affamata, si abbandonò ad uno sfrenato consumo, e troppo tardi se ne avvide delle conseguenze disastrose, perché così facendo, non solo rendeva impossibile una lunga durata " a goder del buon mercato presente", ma addirittura ne impediva "una continuazione momentanea. ". Anche i contadini abbandonavano la campagna e si riversavano in città; la situazione era destinata a precipitare; i tentativi di porvi rimedio non ottenevano alcun risultato efficace. Consumate le scorte, la fame divenne un male disastroso, pericoloso e inevitabile.
In città, chiusi negozi e fabbriche, la disoccupazione imperversa e la miseria si spande a macchia d’olio. Accattoni di mestiere e mendicanti formano una lugubre e grossa schiera. Il cardinale Federigo in questa circostanza organizza i suoi soccorsi; forma tre coppie di preti che, seguiti da facchini carichi di cibi e di vesti, girano per la città, per ristorare chi è più bisognevole. Ma l’interessamento caritatevole del cardinale, unito alla generosità dei privati e ai provvedimenti dell’autorità della città, si dimostra inadeguato rispetto alla vastità del male.
Per tutto il giorno nelle strade si ode " un ronzio confuso di voci supplichevoli, la notte, un sussurro di gemiti," ma non si ode " mai un grido di sommossa. ". Eppure, osserva il Manzoni, tra coloro che soffrivano " c’era un buon numero di uomini educati a tutt’altro che a tollerare, " per cui conclude che spesso " ci rivoltiamo sdegnati e furiosi contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio sotto gli estremi". Se qualcuno era in grado di fare qualche elemosina, la scelta era ardua; all’ avvicinarsi di una mano pietosa, all’intorno era una gara d’infelici, che stendevano la loro mano. Poiché le strade diventano ogni giorno di più un ammasso di cadaveri, trascorso l’inverno e la primavera, il tribunale di provvisione decide " di radunare tutti gli accattoni, sani ed infermi, in un sol luogo, nel lazzaretto, " dove potranno essere aiutati a spese del pubblico. In pochi giorni gli infelici ospitati divengono tremila; ma i più, o per godere l’elemosine della città o per la ripugnanza di star chiusi nel lazzaretto, restano fuori. Per cacciare dunque gli accattoni al lazzaretto, si deve ricorrere alla forza, e così, in pochi giorni, il numero dei ricoverati sale a circa diecimila.
Ma tale iniziativa, sia pur lodevole nelle intenzioni, per l’ammassarsi di tanti infelici in un sol luogo, per l’organizzazione carente e per l’inadeguatezza dei mezzi, è insufficiente. La gente dorme per terra o su paglia putrida; il pane è alterato " con sostanze pesanti e non nutrienti"; manca persino l’acqua potabile; perciò la mortalità cresce a tal punto che si comincia a parlare di pestilenza. Per porre rimedio a questa grave e pericolosa situazione, si mandano via dal lazzaretto tutti i poveri non ammalati, mentre gli infermi vengono ricoverati nell’ospizio dei poveri di Santa Maria della Stella. Finalmente, con il nuovo raccolto il popolo ha di che sfamarsi, ma la mortalità, per epidemia o contagio, anche se con minore intensità, si protrae fino all’autunno, quand’ecco, implacabile, un nuovo flagello si abbatte sulla popolazione: la guerra. Infatti il cardinale Richelieu con il re, alla testa di un esercito, scende in Italia e occupa Casale, tenuto prima da don Gonzalo. Nel frattempo si dispone " a calar nel milanese" anche l’esercito di Ferdinando, nel quale pare che covasse la peste, tanto che si fa divieto a chiunque, quando l’esercito muove all’assalto di Mantova, " di comprar roba di nessuna sorte dai soldati". Ma tale divieto non è preso in alcuna considerazione. L’esercito di Ferdinando, era per lo più composto da bande mercenarie che mettevano a soqquadro tutti i paesi, asportando dalle case tutti gli oggetti di valore.
Capitolo XXIX
Intanto Don Abbondio, ricevuta notizia dell'arrivo dell'armata, risoluto di andarsene prima di tutti, seguiva Perpetua, in quanto incapace di ragionare per la paura. Egli implorava aiuto dalla finestra ai suoi parrocchiani, ma quelli indaffarati nella fuga non li badarono minimamente. Poi, entrò Agnese che propose ai due di recarsi con lei presso l'Innominato, così tutti e tre presero per i campi, seppur Don Abbondio brontolasse. Si ritrovarono nel paese del sarto e si recarono a fargli visita; questo fece cogliere fichi, pesche, fece cuocere castagne e si mise a parlare del buon ricovero che avevano scelto presso l'Innominato. Don Abbondio aveva fretta, così il sarto trovò un baroccio per la seconda metà del viaggio. L'Innominato dal giorno della conversione era sempre intento a far del bene e in questi momenti aveva fatto spargere la notizia che la sua casa è sempre aperta ai bisognosi, mettendo alcuni contadini di guardia al castello, facendo giungere inoltre provvigioni per tutti i suoi ospiti.

Capitolo XXX
La peste la prende anche don Rodrigo: se la scopre addosso una sera tornando da un festino dove aveva celebrato ironicamente il morto conte Attilio. Chiede aiuto al Griso perché chiami un medico: il Griso chiama invece i monatti. Che lo portano al lazza retto. Ma prima del padrone muore fulminato dalla peste anche il Griso. Di peste s'ammala anche Renzo, ma la forte, contadinesca fibra lo salva: superata la convalescenza decide di far ritorno al suo paese in cerca di Lucia. Nessuno in tanta confusione si curerà di lui e dei suoi conti con la Giustizia. Salutato il cugino Bortolo, riattraversa l'Adda e si affaccia al suo paese. Dovunque imperano i segni della morte, dell'abbandono, della sofferenza. Incontra Tonio in camicia che dice cose senza senso: la malattia lo aveva reso idiota e fatto somigliare stranamente al fratello folle. Da una cantonata vede avanzare una cosa nera; è don Abbondio che ha perduto Perpetua: è mal messo ma si preoccupa della presenza di Renzo. per lui sorgente di guai. Di Agnese sa che si rifugiata a Pasturo, di Lucia dice che è a Milano in casa di don Ferrante. Altro non sa; una sola cosa vorrebbe: che Renzo torni al più presto dond'è venuto. Renzo passa anche accanto alla sua vigna: ormai ridotta a una marmaglia di piante, di vilupponi arrampicati, di rovi, di un guazzabuglio di steli. Pare anch'essa investita e disgregata dalla peste. A sera trova rifugio in casa di un amico. L'indomani decide di recarsi a Milano in cerca di Lucia.

Capitoli XXXI
Manzoni mette in rilievo il comportamento di una popolazione spaventata. La peste agisce generalmente in poche ore, a volte di più,  portando rapidamente alla morte dei contagiati. In pochi casi si guarisce e allora si è immuni. La peste provoca la degenerazione delle ghiandole linfatiche in bubboni . Vengono organizzate riunioni all’ aperto per pregare insieme Dio che faccia scomparire questa tremenda malattia, il che, invece di fermare la diffusione di questa malattia, la accelera, perché la gente sana stando a contatto con quella malata, veniva contagiata facilmente. Gli abitanti iniziano addirittura a pensare che ci sia qualcuno che di proposito diffonde la malattia, gli untori. In realtà gli untori non esistono, ma si sono verificati casi in cui il popolo, spinto dalla disperazione, ha deciso di uccidere qualcuno sospettato di aver diffuso intenzionalmente la peste. Un esempio è il vecchio che fu ucciso perché in Duomo, prima di sedersi, aveva spazzolato la panca sporca con il cappello, ed era stato accusato di star spargendo la malattia.

Capitolo XXXII
Incapaci di affrontare il pericolo grave,i decurioni si rivolgono al governatore per sollecitare un aiuto economico diretto e per impedire il passaggio devastante delle truppe nella zone di Milano. Intanto vengono fatti pressanti richieste al cardinale per organizzare una processione con il corpo di Carlo Borromeo. La richiesta viene inizialmente rifiutata per impedire la delusione di un mancato miracolo e per scongiurare il diffondersi del contagio ad opera degli untori.In un clima di terrore vengono linciati e arrestati un vecchio innocente e 3 turisti francesi accusati di unzione.Dopo un po' però Federigo Borromeo viene convinto e quindi si iniziano i preparativi per la processione.Il giorno dopo  il numero delle vittime per contagio aumenta vertiginosamente e vengono assunti dei "monatti"per trasportare i cadaveri nelle fosse comuni.Durante questo periodo non mancano le opere di bene,attuate dal cardinale;ma non mancano neanche la sopraffazione e la violenza,come  i saccheggi da parte degli stessi monatti. Gli effetti più dolorosi del dramma si riscontrano nel propagarsi delle dicerie sugli untori,considerati colpevoli della peste.Alla fine  Manzoni fa una introduzione per introdurre l'avvio della fine della storia di Renzo e Lucia.

Capitolo XXXIII
Anche don Rodrigo,una notte, tornando a casa da una festa con tre amici suoi e il Griso, inizia ad avvertire strani disturbi. Arrivato a casa, se ne va a letto e tenta di dormire, ma il malessere cresce fino a quando scopre un bubbone. Chiede aiuto al Griso perché chiami un chirurgo che per denaro tiene nascosti i malati: il Griso chiama invece i monatti che lo portano al lazzaretto. Ma prima del padrone muore di peste anche il Griso. Anche Renzo si ammala di peste, ma guarendo, decide di andare a cercare Lucia. Nessuno in tanta confusione si curerà di lui e dei suoi conti con la Giustizia. Salutato il cugino Bortolo, riattraversa l'Adda e si affaccia al suo paese. Dovunque imperano i segni della morte, dell'abbandono, della sofferenza. Verso sera arriva al suo paese e per primo incontra Tonio, seminudo, inebetito dalla peste. Invano Renzo gli parla, ma Tonio non lo riconosce. Incontra dopo don Abbondio che ha perduto Perpetua: è mal messo ma si preoccupa della presenza di Renzo per lui fonte di guai. Renzo apprende che Agnese è a Pasturo. Per la notte trova rifugio in casa di un amico. L'indomani decide di recarsi a Milano in cerca di Lucia.

Capitolo XXXIV
L'ansioso Renzo arriva a Milano, basta una moneta per ottenere il rapido consenso della guardia. Entrando in città avverte dovunque la desolazione per colpa della peste . L'attenzione di Renzo è poi richiamata dalle invocazioni di una donna sequestrata in casa con i suoi bambini, perché il marito è morto di peste. La donna rischiava di morire di fame. Renzo le porge il poco pane di cui dispone e si incarica di avvertire qualcuno. Infatti poco dopo incontra un prete, al quale affida la donna e gli chiede informazioni su dove abita donna Prassede. Ma via via che scorre lungo i quartieri della città, da quelli periferici a quelli del centro, Renzo si imbatte in scene raccapriccianti di dolore e di morte. Carri guidati da monatti erano adibiti alla raccolta dei malati o dei cadaveri. Assiste all'episodio della madre di Cecilia, una bambina morta di peste. Riesce poi a trovare finalmente la casa di don Ferrante, ma qui apprende che Lucia è al lazzaretto, l'ospedale degli appestati. Scambiato per un untore, riesce a stento a sottrarsi a un gruppetto di gente imbestialita, saltando su di un carro di monatti. Renzo non vede l’ora di lasciare quella turpe compagnia e, appena gli pare riconoscere la strada, a Porta Orientale, scende dal carro. Il lazzaretto non è lontano. Renzo entra e si ferma un momento in mezzo al portico a contemplare quel mare di dolore.

Capitolo XXXV
L'aria si fa sempre più afosa, il cielo si copre di una coltre di umidità greve, quando Renzo entra nel lazzaretto: un insieme di capanne e di fabbricati posticci, alzati per la circostanza, accanto ad altri in muratura. L'impressione è quella del covile segnato da un vasto brulichio prodotto da sani e malati, da serventi e da folli, impazziti per la peste, da gente variamente indaffarata. Su tutto domina l'organizzazione imposta dai cappuccini ed è, il loro, un ordine esemplare sempre tenendo conto che bisogna amministrare, confortare, curare o avviare al cimitero ben sedicimila appestati. La visione generale è quella che insorge da un luogo che è un condensato, un contenitore di grandi sofferenze su cui incombe l'aria ed il cielo nebbioso. Il primo gruppo di malati, collocati a parte, dentro un recinto, è quello dei bambini allevato da nutrici e da capre: alcuni sono neonati ed hanno bisogno di costante cura ed attenzione. Molte donne guarite dalla peste provvedono alla cura dei bambini: ma anche le capre, quasi consapevoli della grande sofferenza, offrono mansuete il proprio latte ai bambini. È uno spicchio di umanità che intende sopravvivere e resistere nonostante tutto sembri avviare a morte o a disperazione. E proprio in un atteggiamento di padre che si cura dei propri piccoli Renzo intravede dopo tanto tempo la cara immagine di padre Cristoforo. Affettuoso l'incontro tra i due. Il padre dopo essere stato per anni a Rimini, per pressioni esercitate sui superiori ha ottenuto di essere richiamato a Milano e di essere adibito al servizio dei malati. Renzo gli fa un succinto riassunto delle sue avventure e dice di essere nel lazzaretto in cerca di Lucia. Potrebbe essere, se è ancora viva, nel recinto assegnato alle donne: è proibito entrarvi. Ma il padre lo autorizza date le buone intenzioni che lo animano. Ma Lucia sarà viva? Se non dovesse essere viva, Renzo si dice pronto a fare vendetta su don Rodrigo, che è all'origine di tutte le disavventure sue e di Lucia. E a questo punto padre Cristoforo lo redarguisce e alla legge di vendetta contrappone la legge cristiana del perdono e della carità. Lui, che ha fatto l'esperienza dell'assassinio di un uomo, sa quanto arida sia la strada della vendetta e quanto allontani da Dio e quindi dall'umanità la ricerca di una giustizia che impone morte per morte. La vera giustizia è la carità che compensa la morte di un uomo con la crescita ideale di nuova umanità. Renzo convinto si dice disposto al perdono del suo avversario. E il frate lo conduce in una capanna dove gli mostra don Rodrigo moribondo: ecco come si è ridotto colui che voleva farsi padrone dell'altrui vita! E il padre non sa decidere se in quelle condizioni il signorotto sia per un castigo o per un atto di misericordia della divinità.

Capitolo XXXVI
Dopo affannosa ricerca, incontra finalmente Lucia. L'amarezza per la riconferma del voto fatto alla Madonna, è risolta dall'intervento di padre Cristoforo, che scioglie Lucia dal voto. Lucia resta con una ricca signora che ha perduto i suoi e l'ha presa a ben volere, mentre Renzo torna ad avvertire Agnese del prossimo ritorno della figliola.

Capitolo XXXVII
Uscito dal lazzaretto Renzo è sorpreso da un temporale, quello che porterà via la peste. Vede Agnese, ritorna a Bergamo dal cugino per cercarsi una casa, è di nuovo al paesello ad attendervi Lucia che, trascorsa la quarantena, si accinge a ritornare. Prima della partenza, apprende la morte di padre Cristoforo, il processo contro la monaca di Monza, e la morte anche di donna Prassede e don Ferrante.

Capitolo XXXVIII
Lucia fa ritorno al suo paesello e può così finalmente ritrovare la madre Agnese ed il promesso sposo Renzo. Dopo i primi gioiosi festeggiamenti, il ragazzo va poi subito a fare visita a Don Abbondio e chiede nuovamente al religioso di celebrare il matrimonio. Don Abbondio non dice espressamente di no ma continua ancora a proporre scuse per non compiere il proprio dovere, puntanto soprattutto sul mandato pendente su Renzo e sulla sconvenienza di celebrare pubbliche nozze nel territorio di Milano. Il giovane fa ritorno alla casa di Lucia e racconta l'esito della missione alle donne.
Nel pomeriggio dello stesso giorno Agnese e Lucia tentano nuovamente di convincere il curato a svolgere il matrimonio. L'esito sarebbe stato ancora lo stesso se Renzo prima ed il sagrestano Ambrogio poi non avessero comunicato a tutti loro che la casa di Don Rodrigo è stata occupata da un marchese parente del tiranno e molto famoso per la sua bontà. La notizia rende certa la morte di Don Rodrigo e don Abbondio, venuta meno la sua fonte di terrore, cambia completamente atteggiamento: si dichiara disponibile a celebrare il matrimonio e scherza amorevolmente con tutti sulle vicende appena vissute. Il giorno dopo il curato riceve anche una visita dallo stesso marchese e saputo che l'uomo vuole risarcire Renzo e Lucia per i danni causati loro dal suo parente deceduto, consiglia lui di comprare a buon prezzo le case dei giovani e di attivarsi per fare annullare il mandato di cattura pendente sul ragazzo. Renzo e Lucia diventano così sposi per bocca di don Abbondio e ricevono in dono anche l'assoluzione di Renzo ed un'altra sostanziosa donazione di denaro (la compravendita delle case avviene per mano di un dottore, non però di Azzecca-garbugli, morto di peste).
Dopo un doloroso addio a tutti gli amici ed i conoscenti, Renzo, Lucia ed Agnese lasciano infine anche il paese ed il territorio di Milano per raggiungere Bortolo nel territorio bergamasco. La vita nella loro nuova residenza non è però felicissima per Renzo: sapute le vicende dei due giovani, l'aspettativa in paese per l'arrivo di Lucia è altissima e non mancano i commenti negativi quanto tutti si accorgono che si tratta comunque di una semplice contadina. Quando viene messo in vendita un filatoio a buon prezzo alle porte di Bergamo, il giovane non esita a comprarlo insieme al cugino ed a lasciare così anche questo paese. Aspettative per Lucia non ce ne sono più ed i due sposi possono finalmente godersi la pace del matrimonio, dando anche alla luce numerosi figli, la prima dei quali, come promesso, viene chiamata Maria. Il romanzo termina con la celebre morale messa in bocca a Lucia: «...lo non sono andata a cercare i guai: sono loro che sono venuti a cercar me... i guai vengono bensì spesso perché ci si è dato cagione; ma la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani...».

 
La notte è dolce e chiara e senza vento, e la luna sta quieta sopra i tetti e in mezzo agli orti e da lontano rivela ogni montagna. O donna mia nelle strade non c’è più nessuno, e dai balconi la lampada traspare fiocamente. Tu stai dormendo poiché ti sei addormentata subito (il sonno ti ha colto velocemente) nelle tue calme stanze; e niente ti preoccupa e non pensi neanche che grande ferita mi hai aperto nel petto. Tu dormi: e io mi affaccio per salutare il cielo, che allo sguardo sembra buono e la natura eterna che tutto può fare e che mi ha creato per soffrire.
La natura mi disse: a te nego anche la speranza e tu potrai solo piangere (e i tuoi occhi brillino solo di lacrime). Questo giorno di festa; ti riposi dai divertimenti e forse nel sogni ti ricordi a quanti ragazzi sei piaciuta e quanti ragazzi sono piaciuti a te. Io non spero che nei tuoi pensieri ci sia anch’io. Intanto mi butto a terra, gridando e commuovendomi chiedo quanto mi resti ancora da vivere.
Oh giorni orrendi della giovane età. Ahi per la strada sento non lontano il canto solitario dell’artigiano che a tarda notte dopo i divertimenti torna alla sua povera casa, e crudelmente mi commuovo a pensare come tutte le cose al mondo passino senza lasciare un ricordo (una traccia) Ecco il giorno festivo è finito e a questo giorno succede il giorno comune e il tempo porta via ogni vicenda umana. Dove sono le voci dei popoli antichi? E il grande Impero di Roma e il rumore delle armi che attraversò la terra e l’oceano?
Tutto il mondo è in pace e in silenzio, non si parla più dei popoli antichi e di Roma
Nella mia giovinezza, quando si aspetta ardentemente il giorno di festa, dopo che il giorno di festa era passato io sofferente non riuscivo a dormire e mi stringevo ai cuscini e tarda notte si sentiva un canto che si allontanava (che moriva) a poco a poco e allora come oggi mi si stringeva il cuore.

Riassunto 
E' notte e il poeta contempla il paesaggio illuminato dalla luna che si presenta dolce chiaro e senza vento, mentre di lontano appare nitido il profilo delle montagne.
All’incanto della pace notturna fa contrasto l’angoscia del poeta consapevole che la sua donna dorme tranquillamente, dopo aver trascorso con gioia il giorno di festa, durante il quale si è lasciata corteggiare da tanti giovani.
Ella non sa quale profonda piaga ha aperto nel cuore del poeta, il quale deve amaramente constatare che la natura onnipotente lo ha destinato alla sofferenza: per lui non c’è neppure la speranza
Per questo egli si chiede angosciosamente quanto tempo gli rimarrà ancora da vivere e getta un grido di dolore: ”O giorni orrendi in così verde etate!”
Intanto ode di lontano il solitario canto dell’artigiano, che ritorna alla sua povera casa dopo i divertimenti della giornata festiva.
Ciò fa pensare come tutto al mondo passa, e quasi ombra non lascia
Del di festivo, infatti, più nulla rimane, così come intere epoche della storia, pur splendide un tempo per civiltà e valore, non hanno lasciato che tenui memorie, destinate anch’esse a scomparire
Già da fanciullo, dice il poeta quando al giorno festivo, bramosamente atteso, subentrava la notte, egli giaceva insonne nel letto ad ascoltare, a tarda notte, un canto che lentamente si spegneva in lontananza, mentre nel cuore penetrava una profonda tristezza al pensiero che tutte le cose umane finiscono nell’oscurità e nel silenzio
 
La tempesta è passata, sento gli uccelli far festa, e la gallina, tornata sulla strada che ripete il suo verso. Ecco che il sereno rompe le nuvole là da occidente, verso la montagna; la campagna si libera dalle nubi e lungo la valle appare chiaro e ben distinto il fiume. Ogni animo si rallegra, da ogni parte riprendono i soliti rumori e riprende il consueto lavoro. L’artigiano, con il lavoro in mano, si avvicina cantando verso l’uscio a guardare il cielo umido; esce fuori la giovane ragazza (la popolana) per vedere se sia possibile raccogliere l’acqua della pioggia da poco caduta; e l’ortolano ripete di sentiero in sentiero il consueto richiamo giornaliero. Ecco che ritorna nel cielo il sole, eccolo che sorride per i poggi e per i casolari. La servitù apre le finestre, apre le porte dei terrazzi e delle logge: e dalla strada principale si sente un tintinnio di sonagli; il carro del viandante che riprende il suo viaggio stride.
Ogni animo si rallegra. Quando la vita è così dolce e così gradita come ora? Quando l’uomo si dedica con così tanto amore alle proprie occupazioni come in questo momento? O torna al lavoro? O intraprende una nuova attività? Quando si ricorda un po’ di meno dei suoi mali? Il piacere è figlio del dolore, è solo una gioia vana (un illusione), frutto del timore ormai passato, è frutto di quella paura che scosse chi odiava la vita ed ebbe terrore della morte; a causa della quale le persone fredde, silenziose, pallide sudarono ed ebbero il batticuore nel vedere fulmini, nuvole e vento diretti a colpirci.
O natura benevola, sono questi i tuoi doni, sono questi i piaceri che tu porgi ai mortali. Fra noi il piacere è uscire dalla paura, cessare di soffrire. Tu spargi in abbondanza dolore; il dolore nasce spontaneamente: e quel nostro piacere che ogni tanto per prodigio e per miracolo nasce dal dolore, è un gran guadagno. O genere umano caro agli dei! ti puoi ritenere molto felice se ti è concesso di tirare il respiro da qualche dolore: ti puoi ritenere beato se la morte ti guarisce da ogni dolore.

Commento
Questa poesia di Giacomo Leopardi narra che dopo una tempesta si sentivano gli uccelli che facevano festa e la gallina che ritornava nella sua via ripetendo il suo verso.
Così ritornava il sereno dove si irrompeva a ponente nella montagna e così la nebbia scomparsa dalla campagna e in questo il fiume si vedeva finalmente chiaro nella valle.
A questo punto il cuore delle persone si rallegrava e così da ogni parte si risentiva il rumorio perchè le persone ritornavano a svolgere il loro lavoro; l'artigiano si affacciava sull'uscio a vedere l'umido cielo cantando con il lavoro nelle sue mani; a gara usciva fuori la femminetta a raccogliere l'acqua della pioggia appena caduta; l'artigiano si affacciava sull'uscio a vedere l'umido cielo cantando con il lavoro nelle sue mani; a gara usciva fuori la femminetta a raccogliere l'acqua della pioggia appena caduta; l'erbaiolo andava per ogni sentiero facendo il suo grido di richiamo quotidiano.
Il sole ritornava illuminando le case di campagna; la famiglia apriva i balconi e le terrazze: nella via si sentiva in lontananza il rumore dei sonagli; il carro strideva del carrettiere che riprendeva il suo cammino.
Questo mi fa capire che una volta la vita era più calma, silenziosa e piena di sapori antichi che facevano sognare.
Invece oggi la vita è frenetica, piena di rumori e non si riesce più a respirare aria buona poichè è tutto inquinato.

Analisi del piano del significato della "Quiete dopo la tempesta"
La struttura della lirica riflette sul piano del significato la ripartizione interna (tre strofe di endecasillabi e settenari), creando inizialmente almeno due campi semantici opposti, che al centro del componimento si uniscono, con effetti di svelamento, mettendo in luce il nucleo compositivo principale, che coincide con il messaggio veicolato dal testo.
La prima strofa, infatti, è dominata da un campo semantico che potrebbe genericamente essere definito "positivo": a questo appartengono, ad esempio, nomi come "festa", l’aggettivo "chiaro", i verbi "rallegra" e "sorride". Questo generico campo specifica se stesso via via come sottolineatura di un elemento "vitale", di cui è segno la forte progressione del movimento: a ciò può essere ricondotta la preponderanza netta di verbi di significato iterativo: "tornata"; "ripete", "torna a mirar"; "fassi", "vien fuor", "rinnova"; "ripiglia", che raggiunge l’apice al v. 9 con "risorge" A questo va aggiunta la presenza del "Sole", o di aggettivi come "novella", ed anche, allargando il piano, del verbo "apre". A coronare il tutto rumori, ma soprattutto suoni di esseri viventi - animali e uomini: dai verbi "odo", "odi" "cantando", alla specificazione di ciò che è possibile ascoltare: "verso", "romorio", "grido" "tintinnio di sonagli".
Nella seconda strofa il campo semantico precedente viene ripreso e capovolto: spia dell’inversione è il chiasmo tra i vv. 8 e 25 ("Ogni cor si rallegra"; "Si rallegra ogni core"); il periodo, prima solo paratattico, va ulteriormente frantumandosi e si dipana in una serie di proposizioni interrogative, legate le une alle altre da riprese e anafore ("si", "sì" — da notare il gioco sulla perfetta identità di suono — "si"; "quando", "quand’", "quando"; disgiunzioni ("o", "o"). Se quindi troviamo ancora "dolce" "gradita" "vita" "amore" "nova", compaiono sul versante opposto "mali" "timore" "tormento" "sudar" "palpitar", il centro è rappresentato dall’accostamento sintattico o grammaticale di termini dei due campi semantici opposti: "piacer figlio d’affanno", "gioia vana" (con ossimoro concettuale) "paventò la morte chi la vita abborrìa", per poi riprendere al v. 36 con "lungo tormento" e con l’accumulo degli aggettivi "fredde, tacite, smorte", cui corrispondono, nell’ultimo verso della strofa, "folgori, nembi e vento" con climax discendente, contrapposti al Sole del v. 19. A sancire lo stacco intervengono anche i tempi verbali: il presente iterativo s’impenna all’improvviso traducendosi in un passato remoto "paventò" "aborrìa" "sudàr" "palpitàr".
La terza strofa, riprendendo entrambi i campi semantici, completa il processo di commistione introducendo quale nuovo elemento una sfumatura di ironia: la "natura cortese"

 
tema: La Ginestra o fiore del del deserto conclude il pensiero filosofico di Leopardi ed è praticamente il suo testamento spirituale. Nella canzone si parla della coraggiosa e allo stesso tempo fragile resistenza, che la ginestra oppone alla lava del Vesuvio, il monte sterminatore, simbolo della natura crudele e distruttiva. Il delicato fiore coraggiosamente risorge sulla lava impietrata, e con la fragranza dei suoi arbusti sembra rallegrare queste lande desolate. Ma il suo destino è tragicamente segnato da una nuova eruzione, capace di annullare non solo la sua consolante presenza ma - ben più drammaticamente - la presenza dell'uomo in questi luoghi. La ginestra diviene simbolo della condizione umana. Leopardi in questo canto mette in contrapposizione la smisurata potenza della Natura con la debolezza e fragilità, quasi impotenza, del genere umano: da un lato la Natura che tutto può e dall'altro l'uomo che deve subire ciò che la divinità superiore con i suoi "decreti" ha stabilito per lui; l'insesorabile inimicizia della Natura nei confronti degli uomini in contrasto con la ridicola superbia degli uomini che, pur non essendo nulla, si credono padroni e signori della terra e dell'universo.


Il canto può essere suddiviso in base alle 8 strofe che lo compongono:
  1. La ginestra (versi 1-16)
  2. invettiva contro la natura - ginestra simbolo della poesia (versi 17-51)
  3. invettiva contro la cultura dominante (versi 52-86)
  4. stoltezza e nobiltà dell'uomo - 111-135: la più alta affermazione della propria dignità morale che Leopardi abbia lasciato, espressione definitiva dell'ideale di eroica lotta contro il destino; la magnanima grandezza, unico possibile riscatto dalla miseria della condizione umana, è unita a un ideale di fraternità con gli altri uomini (versi 86-157)
  5. piccolezza dell'uomo, precarietà della condizione umana - visione di spazi cosmici sterminati, immensità gelida incomprensibile e arcana - lo spazio smisurato coincide col nulla (versi 158-201)
  6. cecità della natura cieche e inesorabili sono le forze naturali che casualmente distruggono i viventi nella morte: in ogni caso la Natura segue impassibile il suo eterno corso (versi 202-236)
  7. potenza e insensibilità della natura: non solo sul nuovo, ma anche sulle rovine incombe minacciosa la Natura (versi 237-296)
  8. umiltà e saggezza dell'uomo illuminato (versi 297-317):
forma metrica:  Canzone libera composta di sette stanze libere di diversa dimensione e, spesso, rime al mezzo.

 
PARAFRASI
Mi è stato sempre caro questo colle solitario e questa siepe che l'orizzonte esclude. Ma quando mi siedo e osservo spazi interminati e silenzi, in tutta quella quiete, mi nascondo nei pensieri, e il cuore si spaventa. E come il vento soffia tra gli alberi, io penso a questo silenzio infinito, e ricordo il tempo passato e quello presente e vivo e il suo rumore; Così, in questa immensità il mio pensiero affonda: e naufragare in questo mare sterminato è dolce. 



COMMENTO 
Questi versi sono un richiamo ad un Romanticismo più "europeo"; infatti la contemplazione della natura è un elemento ricorrente nelle letterature tedesca, inglese e francese di quegli anni, ma è pressoché assente nel Romanticismo italiano, forse più teso al patriottismo e agli ideali liberali. Il poeta si trova sulla sommità di una collina e osserva il cielo, soffermandosi a riflettere sul paesaggio che lo circonda e sugli elementi della natura; ecco allora che il rumore del vento riporta alla mente il suono degli anni che passano, e che l'immensità che avvolge l'autore è come una marea che travolge il suo corpo e il suo spirito. L'inizio della poesia è concreto e il colle inteso è il monte Tabor. I pensieri del poeta sono stimolati da elementi esterni concreti che diventano occasione di riflessioni al di là della concretezza: in questo senso l'immagine della siepe non è un elemento molto negativo (limita la veduta) perchè permette al poeta di pensare con la fantasia che cosa ci sia al di là; la siepe rappresenta pertanto il limite della possibile conoscienza umana.

 
·Jacopo dopo il trattato di campoformio deluso dal tradimento di napoleone si rifugia in campagna, sui colli Euganei
·Li conosce il padre di teresa, che è fidanzata con Odoardo
·Jacopo si innamora di Teresa
·Teresa confessa a jacopo la sua infelicità 
·Dopo un breve viaggio a padova jacopo torna in campagna da dove scrive lettere sul tema dell’amore e sull’impossibilità di realizzarlo
·Jacopo ancora una volta parte in viaggio nelle principali città d’italia, sperando che questo calmerà il suo animo
·Torna in veneto, che è sotto il controllo austriaco e teresa intanto si è sposata
·La duplice delusione, politica e sentimentale spinge jacopo al suicidio

 
L'azione si svolge  a Verona dove da anni  due grandi famiglie, i Montecchi e i Capuleti, sono consegnati  ad un odio inestinguibile (di cui si ignorano peraltro le cause).
Romeo, figlio ed erede della famiglia Montecchi, è innamorato della bella Rosalina e non teme di affrontare a questo riguardo gli scherzi dei suoi amici Benvolio e Mercuzio.
Capuleti, il capo della famiglia rivale si prepara  a dare una grande festa per permettere a sua figlia, Giulietta, di incontrare il Conte di  Parigi. Quest'ultimo, in effetti, l’ha richiesta in matrimonio ed i genitori di Giulietta sono favorevoli a quest'unione. Romeo - che crede di trovarvi Rosalina - si autoinvita con gli amici Benvolio e Mercuzio a questo grande ballo mascherato. Scorge Giulietta
e resta folgorato dalla sua bellezza cadendo follemente  innamorato di lei; è il colpo di fulmine reciproco. Le si avvicina e l’abbraccia due  volte quindi si ritira. Romeo e Giulietta scoprono adesso  la loro identità reciproca. Disperati  si rendono conto di essersi innamorati  ciascuno del proprio peggior nemico.
Al cader della notte, Romeo si nasconde nel giardino del Capuleti. Quindi si avvicina sotto il balcone di Giulietta e le dichiara il suo  amore. Tutti e due fanno a gara nel pronunciare dichiarazioni d’amore appassionate. Perdutamente innamorato,  Romeo si confida il giorno dopo con  fra Lorenzo, il suo confessore. Inizialmente  incredulo, fra  Lorenzo promette tuttavia a Romeo di aiutarlo e di  celebrare il suo matrimonio, nutrendo anche la  speranza di riconciliare Capuleti e Montecchi.
Tebaldo  cugino di Giulietta, sfida  Romeo a duello. Ma il giovane - al colmo della felicità e pieno di una simpatia "fraterna" per l’aggressore -  rifiuta di battersi. Mercuzio, il confidente ed amico di Romeo, giovane coraggioso e brillante, si affretta a sostituirlo battendosi contro Tebaldo. Quest'ultimo lo ferisce a morte. Mercuzio muore maledicendo il litigio delle due famiglie nemiche. Romeo vendica la morte del suo amico ed uccide Tebaldo. Romeo ormai ricercato  deve fuggire in esilio.
Giulietta è in preda al  dolore. Suo padre,  reso inquieto  dallo stato d’animo della figlia,  decide di accelerarne il matrimonio con il Conte di  Parigi. Il matrimonio avrà luogo il giorno dopo. Giulietta si rifiuta. Suo padre la minaccia: o sposa il Conte, o la disereda. Lei corre da  fra Lorenzo che le propone di bere un filtro che può darle l'aspetto della morta per quaranta ore: credendola morta la chiuderanno nella tomba del Capuleti. Fra  Lorenzo verrà allora con Romeo a liberarla. Il frate  promette di informare Romeo dello  stratagemma. Giulietta accetta il piano. Rimasta sola nella sua camera, beve il filtro. La mattina del giorno dopo la governante la scopre inanimata. Tutta la famiglia piange la morte di Giulietta. Fra  Lorenzo fa sì che  tutto si svolga secondo i suoi piani.
A Mantova, dove Romeo è in esilio,  riceve la visita di Baldassarre,  suo servo, che gli annuncia la morte di Giulietta. Ha soltanto un rapido pensiero: procurarsi del veleno e ritornare a Verona per morire accanto alla sua Giulietta. Durante questo lasso di tempo, fra  Lorenzo apprende che un intoppo ha impedito  al suo messaggero di informare Romeo del suo  stratagemma. Decide di recarsi alla tomba del Capuleti per liberare Giulietta. Ma il dramma precipita.
Romeo si reca  sulla tomba di Giulietta e vi incontra il Conte di Parigi venuto a portare fiori alla fidanzata  morta. Un duello ha luogo tra i due giovani e il Conte, morente, chiede a Romeo  che accetta,  di adagiarlo vicino a Giulietta. Romeo contempla la bellezza luminosa di Giulietta e l’abbraccia  prima di bere il veleno e morire a sua volta. Fra  Lorenzo è sconvolto nello  scoprire i corpi di Romeo e del Conte  di Parigi. Assiste al  risveglio  di Giulietta e tenta di  convincerla a seguirlo e   andarsi a  rifugiare in convento. Ma Giulietta che scopre il corpo di Romeo mortogli vicino   si pugnala con la spada del suo amante e muore al suo fianco.
Il principe, Capuleti, e il vecchio Montecchi si recano al cimitero. Fra  Lorenzo narra loro la storia triste degli "amanti di Verona". I due padri sfiniti dal dolore deplorano quest'odio, causa delle loro disgrazia. Si riconciliano sul corpo dei loro figli e promettono di   erigere alla loro memoria  una statua d'oro puro.

Opera ricca e densa, Romeo e Giulietta fonde  tutti i generi, tutti gli stili, alternado la grossolanità più rozza ed il lirismo più raffinato. Ma soprattutto, è un’opera sostenuta da una poesia che oltrepassa il tempo e lo spazio. Questa tragedia, certamente la più popolare di Shakespeare, si ispira a numerose fonti. Tuttavia  solo lui  ha saputo elevare al rango di mito   questa tragica storia d'amore e di morte.
I personaggi di Romeo e Giulietta appaiono la prima volta in una novella di  Luigi da Porta (1485-1529) che riprendeva un soggetto già sviluppato da un racconto del Novellino di Masuccio Salernitano  e in seguito ripreso da Matteo Bandello in una delle sue Novelle. Ma il nucleo narrativo di fondo è già rintracciabile nelle figure di Piramo e Tisbe tratteggiate da Ovidio.
La pièce  ha ispirato moltissimi artisti (celebri l'opera musicale di Gounod e il balletto di Prokofiev ) e ha dato luogo ad innumerevoli adattamenti scenici e cinematografici. 

Tragedia del Rinascimento
Questa tragedia ha per oggetto l’amore e la tragicità dell’amore. Dell’amore è certamente l’opera che, insieme a poche altre,  celebra il mito in un modo tale da fare assumere alla pièce la funzione di paradigma. Da questo momento in avanti   l’amore e Romeo e Giulietta faranno tutt’uno nell’immaginazione di tutti. È di scena  l’amore puro, rarefatto e senza condizioni, sembrerebbe neanche sotto l’ipoteca sessuale: a questo riguardo l’amore maturo e adulto di Antonio e Cleopatra potrà costituire la verifica realistica se Romeo e Giulietta ne è la trattazione idealistica o romantica.
Certamente il Romanticismo si è impadronito dell’opera e l’ha fatta propria: ma altre sono le sue radici e il suo spazio simbolico di fondo. In controluce c’è l’idea d’amore del Rinascimento con i suoi riferimenti neoplatonici.
Si rintraccia nell’opera l’eco di un’epoca bellicosa:   l’età elisabettiana  porta il segno delle guerre di religione e dei conflitti cruenti che si combatterono tra stati, tra famiglie. Il personaggio  del Principe richiama alla mente la figura della sovrana di ferro come anche il personaggio omonimo di Machiavelli e certo machiavellismo passato in Inghilterra all’epoca (e nelle orecchie) di Shakespeare (vedi il saggio di M.Praz). Si   annuncia peraltro in questo Shakespeare “italiano” l’eterna  Italie sanglante (pugnali e veleni) che perverrà intatta, come mito romantico, nella penna di Stendhal (Chroniques italiennes). 
Ma è il neoplatonismo di radice italiana passato ai poeti della Pléiade e certamente noto a Shakespeare  che edificando  una concezione del sentimento amoroso su forti basi idealistiche e quasi mistiche (che non riguarda solo i sentimenti umani ma tutta la concezione del cosmo e che peraltro,  in più luoghi, nella pièce, è  messa in relazione con l’amore in una fusione panteistica), mette una seria ipoteca sull'opera. L’amore fra i due adolescenti  si esprime anche con un vocabolario religioso e mistico cui la presenza di Fra Lorenzo dà quasi il carisma del mistero religioso.
Ma come sempre  i capolavori vivono sì  nello spazio simbolico della propria epoca ma fanno del proprio spazio simbolico un universo a se stante. Così  quest’opera reca il marchio del genio shakespeariano e l’idealismo romantico (se mai c’è stato) emerge da un mélange ardito di comico e patetico, andamento prosastico e slancio lirico, linguaggio sostenuto e grossolanità: la cifra del suo irregolare ed anticlassico autore.
Gli inestinguibili odi familiari, lo sferragliare delle spade, i sussurri amorosi dei giovanetti in amore in freschi giardini italiani, l’enfasi e il lirismo sentimentale senza paragoni del loro fraseggio amoroso, il ballo intrecciato del caso e della malasorte,  il sinistro operare dei veleni nel  freddo dell’ avello (dovuto anche al maneggio di un frate un po’ pasticcione quasi da opera buffa), le morti incrociate degli amanti resteranno nella memoria in fiamme dello spettatore e  del lettore  avvinti nel binomio di sempre (che come non mai qui celebra il suo trionfo): l’amore che eleva le anime in cielo  e la morte che trascina i corpi sottoterra. 

 
PARAFRASI SOLO E PENSOSO I PIÙ DESERTI CAMPI (FRANCESCO PETRARCA)
Mi aggiro solo e pensieroso, misurando con andatura lenta ed esitante i campi più deserti; e volgo
intorno gli occhi, attenti a sfuggire quei luoghi dove orme di uomini non segnino la rena. Non trovo altro riparo che mi protegga dalla chiara consapevolezza che tutti, al vedermi, hanno del mio stato; poiché nei miei atti privi di vivacità e di allegria si legge chiaramente come io internamente arda d’amore: per cui io credo ormai che monti e spiagge e fiumi e foreste sappiano di che natura è la mia vita intima, che è nascosta agli altri. Ma tuttavia non riesco a trovare vie tanto aspre e selvagge che Amore non mi raggiunga e non mi costringa a ragionare con lui.

ANALISI DEL TESTO
Il sonetto "Solo et pensoso i più deserti campi" è una delle poesie più famose di Francesco Petrarca, poeta italiano del Trecento, periodo di passaggio tra Medioevo ed età moderna; questa lirica è tratta dal "Rerum volgarium fragmenta", meglio conosciuto come "Rime sparse" o "Canzoniere", opera in volgare alla cui compilazione Petrarca dedicò tutta la vita (1335-1374), con continui rimaneggiamenti, che diede origine al "petrarchismo", fenomeno di imitazione della poesia volgare di Petrarca che gli diede successo e che continua a farlo oggi. Questa lirica racchiude tutto il travaglio interiore che affligge il poeta, costretto ad allontanarsi dalla gente per non far vedere agli altri il suo problema amoroso, e da qui il titolo della poesia, che ne sintetizza il senso: Petrarca,per tenere nascosto il segreto che cela dentro di sé agli altri, fugge in campi deserti, dove può distrarsi in colloqui immaginari con Amore. Come tutti i sonetti, questa lirica è suddivisa in quattro parti: due quartine e due terzine, ognuna tematicamente conclusa. Il tema del testo è la solitudine, dovuta all'amore per una donna, amore che lo porta a fuggire dal resto della società.
Il registro stilistico è alto, in quanto l'autore sintetizza insieme un lessico raffinato con un lessico usuale. Vi sono alcune figure retoriche, come il chiasmo nell'ultima parte del testo, in cui viene invertito l'ordine delle parole (ragionando con meco, et io co llui) e la dittologia sinonimica, consistente nell'usare due termini di significato simile (solo et pensoso). Il genere di questo sonetto è la lirica. Nel testo prevale la paratassi ed il livello fonico è abbastanza articolato: vi è infatti la rima incrociata nelle prime due quartine, la rima ripetuta nelle due terzine. I versi sono endecasillabi. 
 
PARAFRASI AD ANGELO MAI (GIACOMO LEOPARDI)
O italiano coraggioso, per quale motivo non cessi giammai di svegliare dalle tombe i nostri antichi padri romani, e li conduci a parlare a questo secolo, morto , spiritualmente per l’inettitudine, sul quale pesa tanta nebbia di noia?
E come ora, o voce antica dei padri, muta per così lungo tempo, arrivi così forte ai nostri orecchi e così frequentemente?
E perché tanti rìsorgimenti, cioè tanti ritorni a nuova vita delle opere antiche, mediante le molte scoperte del Mai?
D’un tratto le antiche carte divennero feconde di voci uscite dai palinsesti; le biblioteche dei chiostri, polverosi per l’abbandono, tennero nascoste le nobili e sante parole degli avi a beneficio dell’età presente.
E che forza, o illustre italiano, ti infonde il fato?
O forse il fato, che vorrebbe perpetuare lo stato di viltà degli Italiani, contrasta invano con l’umano valore (che ti induce a frugare nelle biblioteche, per scovare le opere dei nostri grandi)?
Certamente non è senza alto volere dei Numi che, quando il disperato oblio della nostra dignità è più pigro e grave, sempre una nuova voce dei nostri padriviene a percuoterci, a svegliarci dal nostro torpore.
Il cielo dunque, cioè Dio, è ancora pietoso verso l'Ita1ia; ancora ha cura di noi qualche divinità: poiché, essendo questa l’ora, e mai se ne presenterà un’altra simile, di ripristinare il nativo valore degli Italiani, tuttora inerte come una spada arrugginita, vediamo che la voce dei morti è grande e nobile, e che la terra fa quasi , uscire gli eroi (cioè i grandi scrittori antichi) per vedere se in questa età, venuta così tardi, ti piace, o patria, essere ancora vile.
O gloriosi eroi del passato, di noi dunque avete qualche speranza di resurrezione? Non siamo del tutto spiritualmente morti? Forse a voi non si impedisce di conoscere il futuro. lo sono moralmente distrutto dal dolore né ho alcuna difesa da esso, perché per me l'avvenire è oscuro, e tutto quello che vedo è tale da far parere la speranza sogno e favola. O anime di eroi, nella vostra terra ha preso posto una plebe priva di onore, perciò spregevole e turpe; per i vostri discendenti (al vostro sangue) ogni valore di azione (opra) nel campo civile, e di poesia (parola) nel campo della letteratura, è rigetto di scherno; dei vostri eterni meriti non hanno più né vergogna (rossor) né invidia; una vita oziosa ed indifferente si svolge intorno ai vostri monumenti; e siamo diventati un esempio di viltà per l'età futura.
O nobile ingegno, poiché ora agli altri non importa nulla dei nostri gloriosi progenitori, siano essi a cuore a te (a te ne caglia), a te a cui il fato spira o soffia (aspira) favorevolmente (benigno), così che, per merito tuo, sembrano presenti, cioè rivivono anno, quei giorni (dell’Umanesirno), quando dal triste e lungo oblio (del Medioevo) risorgevano insieme con gli studi, prima abbandonati, gli antichi eccelsi (divini) scrittori, ai quali la natura, pur senza rivelare i suoi segreti, parlo direttamente, ispirando fervide e generose illusioni, così che con le loro poesie allietarono gli ozi, i riposi magnanimi (perché goduti dopo i negotia, cioè dopo il lavoro) dei cittadini di Atene e di Roma.
Erano ancora calde le tue sante ceneri (o Dante), nemico indomito della fortuna, al cui sdegno e dolore fu più amico l’inferno che la terra, perché ti rifugiasti col pensiero nell’inferno per vedere puniti in esso i malvagi della terra. E quale luogo (parte)-perfino l’Inferno! -non è migliore della terra?
E le dolci corde della tua lira vibravano ancora al tocco della tua mano, o Petrarca, amante sfortunato. Ahimé, la poesia italiana comincia e nasce dal dolore. E tuttavia la sventura che ci addolora, è meno opprimente e straziante (grava e morde) del tedio, della noia derivata dall’inerzia, dal vuoto dell’anima. Oh te beato, o Petrarca, a cui il pianto fu ragione di vita! Noi, fin dalla nascita, la noia avvolse nelle fasce; sia quando nasciamo (presso la culla), sia quando tiriamo (su la tomba) vicino a noi siede irremovibile il Nulla.
La tua vita, o coraggioso figlio della Liguria (Cristoforo Colombo) era in compagnia degli astri e del mare, allorquando, oltre alle colonne d’Ercole e ai lidi occidentali, ai cui abitanti parve, verso sera, udire stridere le onde all’immergersi del sole affidato agli infiniti flutti dell'oceano, tu ritrovasti, a occidente, il raggio del sole tramontato, e (ritrovasti) il giorno che nasce, allorquando ai nostri lidi esso è giunto alla fine, cioè a sera; e, superato ogni contrasto della natura, un immenso continente sconosciuto fu motivo di gloria per il tuo viaggio e per i rischi del ritorno. Ma, ahimé, il mondo conosciuto dopo le nuove scoperte, non s’ingrandisce, anzi rimpicciolisce, perché l'ideale raggiunto è sempre deludente; perciò l’aria vibrante di suoni e la terra che ci nutre (alma) e il mare appaiono assai più vasti al fanciullino, che ne ignora le dimensioni, che non al sapiente che ne è informato.
Dove sono andate, che fine hanno fatto le nostre belle fantasticherie (sogni) intorno alle contrade sconosciute (ignoto ricetto) di ignote popolazioni (ignoti abitatori, come i Giganti, i Centauri, i Ciclopi, le Amazzoni, ecc.), e intorno alla dimora degli astri durante il giorno, e intorno al letto lontano, in fondo al mare, in cui di notte la giovane Aurora dormiva col vecchio marito Titone, e intorno al sonno nascosto (occulto) del sole (maggior pianeta)?
Ecco, dopo l’impresa di Colombo, a un tratto esse svanirono e il mondo è disegnato in una piccola carta geografica; ecco, tutto è uniforme, e con le scoperte aumenta solo il nulla, perché il reale è così povero e meschino che, rispetto all’ideale, a quello cioè che siamo capaci di immaginare, è nulla.
O caro immaginare, conforto quotidiano al nostro male di vivere, appena è
giunto, il vero ti vieta a noi, ti proibisce cioè di operare in noi; da te si allontana
per sempre la nostra mente; al tuo meraviglioso potere sopra di noi ci strappano
gli anni, cioè le esperienze della vita e le conoscenze fornite dalla scienza; e con
la tua scomparsa cesso il conforto, che ci veniva da te, delle nostre pene.
O Torquato (Tasso), allora, nel pieno Rinascimento sfolgorante di leggiadre fantasie, il cielo (destino), con la tua nascita (1544), preparava, a noi, il tuo alto ingegno, a te, unicamente (non altro) il pianto, una vita di dolore. Oh infelice Torquato! la dolce poesia non basto a consolarti o a' sciogliere il gelo, col quale l’invidia dei privati e dei principi Estensi ti avevano avvolto l’animo appassionato. Anche l’amore (per la principessa Eleonora d’Este), che è l’ultima illusione della nostra vita, perché è la più tenace, ti rendeva infelice (ti abbandonava). Il nulla, ossia la totale vanità delle cose, ti parve come un’ombra, qualcosa d’immateriale e inconsistente, e tuttavia reale e solida, e il mondo (ti parve) un luogo deserto. I tuoi occhi non videro il tardo onore della incoronazione poetica; l’ora della morte per te fu una grazia, non una sventura. Chi conobbe il dolore della nostra umana condizione, domanda la morte, non la corona di alloro, simbolo della gloria.
Torna a vivere tra noi, levati dal tuo sepolcro, silenzioso e desolato, perché non curato dai viventi, se sei desideroso (vago) di angoscia, o esempio pietoso (miserando) di vita dolorosa e infelice (sciagura). Il nostro vivere è assai peggiorato rispetto a quello che a te parve così triste e così spregevole. O caro, chi ti compiangerebbe, se per sfrenato egoismo, ciascuno non ha cura se non di se stesso? Chi anche oggi non chiamerebbe folle la tua grave angoscia, se desiderare qualcosa di
grande e di eccezionale è chiamato follia, se ai sommi ingegni tocca in sorte non più l’invidia che implica pur sempre il riconoscimento di un valore, ma l’indifferenza, che è ben più crudele dell’invidia, perché implica la negazione di ogni valore; o quale alloro ti si preparerebbe, se oggi il computar, la ricerca cioè dei beni materiali, è perseguito più della poesia?
Dopo di te, fino ad oggi, o sventurato ingegno (del Tasso), non è nato altro uomo degno dell’antica gloria italiana, se non uno solo (Alfieri): solo un fiero piemontese (Allobrogo), immeritevole di vivere nella sua epoca codarda, a cui nel petto il virile coraggio venne dal cielo, non dalla mia Italia stanca ed inaridita; per questa maschia virtù venutagli dal cielo (onde), egli, cittadino privato ed indifeso (memorabile audacia), con le sue tragedie sulla scena fece guerra ai tiranni: almeno si conceda questa piccola (misera) guerra a questo metaforico, e perciò insufficiente (vano), campo di battaglia, costituito dal teatro, alle ire impotenti degli oppressi contro i tiranni. Egli per primo e solo scese in campo, e nessuno lo seguì, perché l’ozio e il vile silenzio oggi importa ai nostri concittadini più di ogni altra cosa.
Aborrendo i tiranni ei vili e fremendo di sdegno contro di essi, condusse la vita intera in modo incontaminato e la morte lo liberò dal vedere il peggio dell’età seguente. O mio Vittorio, non era questa l’età adatta per te, né la terra. Altri tempi ed altra sede conviene agli alti ingegni. Oggi viviamo soddisfatti dell’ozio (riposo) e guidati da ideali mediocri: il sapiente è sceso e la plebe, il volgo, è salita allo stesso livello, che rende tutti uguali.
O famoso scopritore di opere antiche, continua la tua opera, riveglia i morti, poiché dormono i vivi; ridona la forza alle voci spente degli antichi eroi; così che, alla fine, questo secolo corrotto o aspiri a nuova vitae sorga a compiere azioni illustri o, almeno, si vergogni.

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