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Dall'ultima cima (D'in su la vetta) dell’antico campanile (il campanile di Sant'Agostino in Recanati),
O passero solitario, vai cinguettando verso i campi finché non si fa sera
e il suono melodioso si diffonde in questa valle.
Tutto intorno (dintorno) la primavera risplende (brilla)
e si diffonde in tutta la sua pienezza (esulta) per i campi
così che a guardare commuove il cuore degli uomini.
Senti (odi: l'uso della 2° persona singolare è caro a Leopardi) le pecore belare e le mucche muggire,
gli altri uccelli volano lieti nel cielo fanno mille voli (giri: voli che esprimono felicità, libertà e divertimento) gareggiando tra loro,
anch'essi (pur) inneggiando la gioventù e la primavera,
tu O passero assorto in meditazione (pensoso: Leopardi attribuisce atteggiamenti umani al passero), separato dai compagni (in disparte)osservi, non stai con gli altri passeri, non voli,
non ti importa l'allegria, eviti  i divertimenti (spassi);
canti, e così trascorri (trapassi) la primavera e la giovinezza.
Povero me (oimè: esprime tristezza nel constatare la somiglianza), come assomiglia il mio al tuo modo di vivere (al tuo costume)
Del divertimento e delle risate dolce compagnia della giovinezza (della...famiglia) e non mi curo neanche di te amore fratello (germano) della giovinezza. Doloroso rimpianto dell'età matura (de' provetti giorni: causa di rimpianto nella vecchiaia, che non conosce più illusioni)
Non so perché mi comporto così, anzi scappo lontano da loro,
quasi lontano ed estraneo (romito e strano),
al mio paese natale (Recanati), trascorro la giovinezza della vita.
Questa giornata che ormai (omai) lascia il posto (cede) alla sera è uso (si costuma) festeggiare al nostro paese.
Senti (odi: ancora l'uso della 2° persona singolare) nel cielo il suono della campana (squilla)
Senti spesso i colpi dei fucili (ferree canne:alla campana si oppongono le note gravi, cupe dei colpi sparati dai fucili) che rimbombano lontano di borgo in borgo (villa). La gioventù del paese tutta (accresce il senso dell'esclusione) vestita a festa lascia le case
e si riversa per le strade
guarda ed è ammirata e il cuore si rallegra.
Io, da solo andando
in questo luogo isolato della campagna,
rimando (indugio) ad altro momento (senza quindi rinunciarvi,
almeno in linea teorica) ogni divertimento.
Il sole calando ferisce (fere) il mio sguardo
che corre lontano nell’aria limpida (aprica),
e  tramontando sembra avvertirmi
che la gioventù, come il giorno,
sta finendo.
Tu (sottolinea l'opposizione con l'io del v.36 e con l'a me del v.50) uccellino solitario venuto alla sera certamente non avrai motivo di rammaricarti del tuo modo di vivere (costume, già in questo senso al v.18) poiché la natura determina ogni vostro desiderio (Che…vaghezza).
A me (ancora in chiave oppositiva) se non otterrò di evitare la soglia odiosa della vecchiaia (se non morirò prima di essere vecchio - Se…impetro),
quando non più cenni e sguardi ricambiati (quando...core),
non più illusioni sul mondo che ci circonda (a lor fia voto il mondo),
non più speranze nel futuro (e il dì...tetro)
Che penserò (parrà) di tale voglia? (Voglia = Leopardi si riferisce alla propria voglia di solitudine).
Che cosa di questi anni miei (anni giovanili vissuti infelicemente)?, che cosa di me stesso (che volontariamente ho scelto questo modo di vivere. Mi pentirò e sovente mi volgerò indietro con rimpianto.

Tema: La fase del pensiero di Leopardi del cosiddetto “pessimismo cosmico” si avviò con l’ideazione della lirica Il passero solitario. La lirica è imperniata sul parallelismo tra la vita del passero solitario e la vita del poeta. Il paesaggio esterno diventa paesaggio interiore dell’anima.
Tutta la poesia è incentrata su analogie, più o meno palesi, fra il passero solitario e la vita del poeta. L’analogia più evidente è senz’altro l’esclusione dal tempo felice della primavera: come il passero trascorre solitario la stagione più bella, spandendo il suo canto per la campagna, così cantando (scrivendo versi) il poeta passa in solitudine la stagione della sua gioventù. L’armonia errante attraverso la valle è il canto del passero cui si richiama quello del poeta, anch’egli solo e vagabondo per la campagna.
La campagna diventa qui per entrambi il luogo del ritiro, dell’esclusione dalla vita festosa del paese nel clima primaverile. Il movimento del passero e del poeta è quello dell’allontanamento dallo spazio umano, per trovare rifugio in aperta campagna.
Il canto è diviso in tre strofe; la prima e la seconda in cui è posto il confronto fra il passero solitario ed il poeta, la terza che ne sottolinea una diversità. In particolare: 1^strofa: (vv.1 - 15) Descrive il comportamento del passero nel contesto e in rapporto agli altri animali, allo spazio della campagna, nel tempo della primavera che è la festa dell'anno. Non v'è una sorta di mestizia in quel passero, che pure dovrebbe essere il simbolo di un'esistenza dolente. Esso è divinamente solo e signore. Non ha bisogno di spassi, non di compagni. Canta. E quel canto si diffonde ovunque. Esso è il re del cielo; riempie e domina dall'alto tutta la valle. Nella seconda e terza strofa la lirica discende invece ad un tono più raccolto, più meditativo.
2^strofa: (vv.16 - 44) Descrive il comportamento del poeta nel contesto e in rapporto agli altri giovani, allo spazio del paese, nel tempo della giovinezza che è la festa della vita. Le due strofe sono dunque costruite simmetricamente rispetto al contenuto e si rapportano l'una all'altra sulla base di un confronto per uguaglianza ("Oimè, quanto somiglia al tuo costume il mio!)", e per differenza, in rapporto al genere di cui fanno parte (l'umanità, il mondo animale).
3^strofa: (vv.45 - 49)La conclusione finale dei due modi di esistere, del passero e del poeta, sono ancora messi a confronto, ma per disuguaglianza: tu "non ti dorrai", "Ahi, pentirommi"; ovvero: tu vivi secondo la tua natura, io vivo contrariamente alla mia natura.

Forma metrica: Canzone libera di tre stanze rispettivamente di 16, 28 e 15 versi.

 
Che fai tu luna in ciel! Dimmi che fai
o luna amica del silenzio?
Spunti la sera e vai illuminando i deserti,
quindi tramonti non sei ancora soddisfatta di ripercorrere gli eterni sentieri del cielo (i sempiterni calli)?.
Non provi affatto noia (non prendi a schivo), sei ancora desiderosa di contemplare queste terre?
La vita del pastore è simile alla tua.
Si alza alle prime luci dell’alba e spinge il gregge oltre il suo campo, per vedere altri greggi, altre fontane, altri prati;
infine stanco si riposa al sopraggiungere della sera:
non spera di vedere mai cose diverse.
Dimmi o luna, che significato ha la vita del pastore,
e la vostra vita per voi?
Dimmi: dove è destinato questo mio breve vagare
e il tuo percorso immortale ?
Vecchio coi capelli bianchi, malato,
mal vestito e scalzo,
con un pesantissimo (gravissimo) fardello sulle spalle,
attraverso le montagne e le valli,
attraverso sassi sporgenti, sabbia e cespugli,
con il vento con la tempesta, sia d’estate quando fa caldo,
sia d’inverno quando tutto è gelo,
come senza mai fermarsi,
attraversa torrenti e paludi, cade,
si rialza, e si rimette poi in cammino senza riposarsi
rifocillarsi mai, lacero, sanguinoso;
fino a quando arriva nel luogo dove tutte le sue fatiche
furono indirizzate (morte), orrido abisso, smisurato, nel quale, precipitando, dimentica ogni cosa.
Intatta Luna, questa è la vita degli uomini.
L’uomo nasce a fatica,
e già alla nascita rischia di morire.
Per prima cosa prova angoscia e sofferenza;
e già in principio i genitori cercano
di consolarlo per essere nato.
Poi man mano che cresce ,
i genitori lo sostengono e cercano,
in seguito di incoraggiarlo (fargli core) con azioni e parole,
e cercano pure di consolarlo:
i genitori non compiono altro compito
più gradito di questo.
Ma perché far nascere, perché mantenere
poi in vita chi bisogna (convenga = sia necessario) consolare?
Se la vita è sventura,
perché si sopporta (si dura)?
Inarrivabile Luna, tale
è la condizione degli uomini.
Ma tu non sei mortale
e forse poco ti importa (ti cale) delle mie parole.
Eppure tu, solitaria, eterna viandante del cielo,
che sei così pensierosa, tu forse capisci
che cosa sia questa vita terrena, le nostre sofferenze, i sospiri,
che cosa sia questo morire, questo estremo impallidimento (scolorare del sembiante: Leopardi allude al biancore della morte) del viso,
questo scomparire della terra,
e il venir meno a ogni solita compagnia di amici.
Anche tu certamente comprendi il perché delle cose,
e vedi l’utilità del mattino, della sera,
del silenzioso incessante trascorrere del tempo.
Tu sai, certamente, a qual suo dolce amore sorrida la primavera,
a chi sia d’aiuto il caldo, e che cosa procuri l’inverno con i suoi ghiacciai.
Tu conosci mille cose, né riscopri altrettante,
che sono nascoste al semplice pastore.
Spesso quando io ti contemplo
mentre stai silenziosa sulla solitaria pianura,
che all’orizzonte confina con il cielo;
oppure mentre mi segui quando
sono in compagnia della mia greggia;
e quando guardo in cielo luccicare le stelle,
dico pensando fra me:
che fanno tante stelle (facelle)? che cosa fa l’aria infinita e quel profondo sereno infinito? Che cosa significa questa solitudine immensa? E io che cosa sono?
Così ragiono nella mia mente: e io non so trovare alcuna utilità, alcuna ragione, sia intorno alla vita dell’universo (stanza...superba), sia intorno alla umanità (innumerabile famiglia);
e poi non so pure trovare il significato dei numerosi
movimenti degli astri, delle cose terrene
che girando senza posa ritornano poi
al punto di partenza.
Ma tu sicuramente conosci già il tutto.
Questo soltanto io so, che dell’eterno movimento
delle sfere celesti, del mio essere
fragile (frale = fragile, effimero)
qualche utilità e gioia l’avrà forse qualcun altro;
per me la vita è male.
O gregge mia che riposi, o te beata che,
credo non conosci la tua miseria!
Quanta invidia ti porto!
Non solamente perché sei sgombra di ogni dolore;
che ogni fatica, ogni danno,
ogni paura dimentichi subito;
ma perché non sai che cosa sia la noia (tedio).
Quando ti siedi all’ ombra sul prato
sei tranquilla e contenta;
ma non provi la mia stessa noia.
Anche io sto seduto sul prato, all’ombra,
e  un pensiero mi angoscia, mi opprime la mente, e l’ ansia quasi mi spinge, così che, stando seduto,
sono molto lontano dal trovare pace e riposo.
Eppure non desidero nulla,
e non ho fino a qui, alcuna ragione di pianto.
Io non so ripetere quanto tu gioisca; ma certamente sei fortunata.
Io invece sono poco felice,
o gregge mia e non mi lamento solamente di questo.
Se tu sapessi parlare, io ti chiederei:
perché riposando nell’ozio
ogni animale è contento,
invece, se io giaccio in riposo
vengo assalito dalla noia (tedio = qui, noia esistenziale)?
Forse, se io avessi le ali (ale)
e potessi volare sopra le nubi,
e contare le stelle ad una ad una,
oppure potessi errare come il tuono di colle in colle,
sarei più felice, dolce mia greggia,
sarei più contento, candida Luna .
O forse il mio pensiero si allontana dalla verità (erra dal vero),
quando guarda alla sorte altrui:
forse in qualunque forma, in qualunque condizione dentro una tana o una culla, il dì natale è un giorno di lutto per chi nasce.

Tema: Il “Canto notturno di un pastore errante dell’ Asia” è stato composto a Recanati nel 1830. Appartiene al periodo pisano – recanatese dell’ autore. L’idea del canto fu suggerita al poeta dalla letteratura di un passo di un articolo riportato sul Journal des Savants. Nell’ articolo si legge che "alcuni pastori nomadi dell’Asia Centrale sono soliti trascorrere le notti all’aperto e seduti su una pietra rivolgono delle parole malinconiche alla Luna". Questa lettura è stata l’idea occasionale per la composizione del canto.
Nel canto il pastore errante pone diverse domande alla luna sulla vita e sull’ esistenza dell’ essere umano, pur sapendo che lei è un essere immateriale.
Nel canto la luna ha un ruolo centrale. E’ la confidente del pastore, raccoglie i suoi dubbi e le sue preoccupazioni, sembra essere una presenza consolatrice anche se è un essere immateriale che non può dare risposte. Di questo limite il pastore si accorge infatti sorge il dubbio che la luna, non essendo mortale, partecipi alla generale indifferenza della natura. Il pastore nonostante questo silenzio crede comunque che forse quell’essere immateriale comprenda il senso dei suoi desideri, più in generale dei desideri umani.
Questo canto mette in risalto la teoria del pessimismo cosmico.
Secondo Leopardi la natura è una matrigna. L’uomo nasce al solo scopo di morire perché l’ esistenza è un ciclo continuo di distruzione della materia. L’infelicità umana è una realtà concreta che domina l’ universo. Anche questo aspetto è messo in evidenza nel canto perché il pastore nel silenzio non riesce ad essere tranquillo ma è dominato dalla paura e dall’ insicurezza.
Si contrappone alla natura la ragione come efficiente strumento conoscitivo capace di svelare le contraddizioni del reale. La ragione non conduce alla felicità, rende l’ uomo consapevole della propria condizione e lo libera da false credenze.

Forma metrica: Canzone libera articolata in sei strofe libere di varia lunghezza (endecasillabi e settenari). Ciascuna strofa si conclude con una parola che termina in "ale" e che fa rima con uno dei versi precedenti. Il linguaggio, a differenza che in altri canti, è quasi spoglio, sobrio.

 
O graziosa (= gratus, parola antica. In questo caso significa non solo ‘gradita’ ma anche ‘piena di grazia’) luna, mi ricordo che ora si compie un anno (or volge l’anno) su questo colle, io venivo , pieno di angoscia  a contemplarti (rimirarti): e tu sovrastavi (pendevi – latinismo) quel bosco proprio come (siccome) fai ora,  che lo rischiari interamente.
Ma (avversativa: opposizione tra la natura e il poeta), a causa delle lacrime (pianto, per metonimia) che mi sgorgavano (sorgea) dalle ciglia, velato (nebuloso) e tremolante (tremulo) mi appariva ai miei occhi (luci, già in Petrarca) il tuo volto, poiché la mia vita era piena di dolori e così ancora, né cambia o mia cara luna.
Eppure mi piace (mi giova, quasi: trovo conforto) il ricordo, e il richiamare alla mente il tempo (l’etate) del mio dolore. Oh come si presenta gradito (occorre è un latinismo: oh come torna grato all’animo) nell'età giovanile, il ricordo delle cose passate, quando la speranza ha ancora dinanzi a sè un lungo percorso  e la memoria dietro di sé un percorso breve (quando si è giovani molto resta ancora da sperare e poco da ricordare. Questi versi -13 e 14 - appaiono solo nell’edizione postuma, benché (ancor che) il ricordo (rimembrar delle passate cose) sia triste e l'affanno duri tuttavia.                                    

Tema: E’ forse questo il primo idillio di Leopardi, fu composto a Recanati nel 1819 e pubblicato prima nel "Nuovo Raccoglitore" e poi, con il titolo La ricordanza, nell'edizione bolognese dei Versi del 1826. Nell'edizione fiorentina del 1831 fu pubblicato con il titolo attuale.
A distanza  di un anno il poeta torna a contemplare la luna che sovrasta la collina e rinnova la stessa sensazione di commozione di fronte alla natura, provata nella passata circostanza. Anche allora la sagoma della luna, il suo volto diafano gli appariva “nebuloso e tremulo” per le lacrime che gli sgorgavano dagli occhi, perché la vita per lui era “travagliosa”, segnata dal dolore come purtroppo è anche ora. Eppure il ricordo del passato, pur nel permanere della sofferenza, gli è di conforto, anche se si accompagna a sensazioni tristi e anche se l’affanno esistenziale ancora dura.

Forma metrica: endecasillabi sciolti. Numerosi gli enjambement.

 
Tu, stanco cuor mio ora riposerai,
l'ultima illusione che io credevo eterna,
è morta, Sento fortemente che non solo
la speranza è spenta, ma anche il desiderio
delle care illusioni è spento.
E riposa per sempre. Assai
palpitasti. Nessuna cosa terrena
Vale i tuoi sentimenti, i tuoi sogni,
ne la terra è degna dei tuoi sospiri.
La vita amara e noiosa non è altro
Che nulla, è il mondo è fango.
Ormai fermati. Non sperare più
Il fato ha donato
Agli uomini soltanto il morire.
Ormai tu odia te stesso, la natura,
il brutto potere il quale, invisibilmente governa
il male a danno degli uomini.
E odia l'infinita vanità del tutto.

COMMENTO
“A se stesso” è la quarta poesia del ciclo di “Aspasia”. E` certamente la poesia più
drammatica e dolorosa di tutto il ciclo. Il Leopardi vi esprime tutto il suo intenso
dolore per la bella Fannj Targioni Tozzetti. E` la poesia del non ritorno all'amore
vissuta in prima persona. Di li a poco partirà per Napoli, dove scriverà l'ultima poesia
del ciclo per la bella Fannj, dal titolo ASPASIA. Il poeta, in balia della sua
disperazione coinvolge tutto il mondo e si rivolge al dio del male, il quale di
nascosto domina il male sulla Terra.

Tema: Il brevissimo componimento a se stesso, fu scritto da Leopardi nel maggio 1833. Il testo fa parte dei Canti e più precisamente del Ciclo di Aspasia, nella terza fase della poesia leopardiana (1831-37). Aspasia è lo pseudonimo che Leopardi dà a Fanny Targioni Tozzetti, donna di cui è innamorato ma che però non ricambia i suoi sentimenti.
Il tema trattato è quello della disillusione nei confronti dell’esistenza umana. Si capta dal testo un invito disperato da parte dell’io lirico a non illudersi più che esista sulla terra qualcosa (o qualcuno) che sia ancora degno di essere amato.
Il poeta si rivolge direttamente al suo cuore dicendogli di riposarsi per sempre, egli sente dentro di se che il desiderio di piacevoli illusioni e di speranze si è esaurito. Al genere umano la natura non ha concesso altro che la morte.
Rappresenta la sintesi della penultima fase di Leopardi. Stilisticamente è spoglia, essenziale, senza sentimento.
Il testo può essere diviso in sequenze che vanno dal v. 1 al v. 5, dal v. 6 al v. 10 e dal v. 11 al v. 16. Il motivo che accomuna l’inizio di ogni sequenza è il riposo del cuore del poeta, che rimanda al tema dell’abbandono di ogni illusione, di ogni speranza.
I versi «Or poserai per sempre,/Stanco mio cor» (vv. 1-2), «Posa per sempre/assai palpitasti» (vv. 6-7), «T’acqueta omai. Dispera/l’ultima volta» hanno una struttura abbastanza simile e, come si vede, propongono con sempre maggior forza il tema del riposo del cuore (si noti l’uso di verbi di forza crescente : «Poserai», «Posa [dunque] »e «T’acqueta omai», con l’ultimo verbo che acquista un senso definitivo).

Forma metrica: Il testo non ha partizione strofica e si presenta in un’unica strofa  di endecasillabi e settenari liberamente alternati e rimati.

 
Questo canto fu scritto da Leopardi nell'agosto 1829. Il canto, dopo una descrizione
naturalistica dell'ambiente sociale e del sabato come un giorno di vacanza e di riposo
passa subito a una conclusione filosofica nella quale da un ammonimento a non farsi
illusione sulla natura. Il finale del sabato è dolce e gradevole, è un invito a godere i
possibili piaceri della fanciullezza, prima che arrivi la giovinezza che darà dolori a
cui seguirà la terribile vecchiaia.

PARAFRASI IL SABATO DEL VILLAGGIO
La fanciulla viene dalla campagna
mentre il sole sta tramontando
con un fascio d'erba; e reca nella mano
un mazzolino di rose e di viole
con il quale, come è solita fare
si prepara ad ornare domani,
nel giorno di festa, il petto e i capelli.
La vecchietta siede con le vicine
presso la scala esterna della casa
e rivolta verso il giorno che svanisce
racconta fatti della sua giovinezza.
Quando si faceva bella nel giorno della festa
e ancora agile e in buona salute
era solita danzare la sera insieme a coloro
che erano i suoi compagni di giovinezza.
L'aria intanto si fa scura.
Il cielo torna a colorarsi di un azzurro intenso,
le ombre tornano giù dai colli e dai tetti,
mentre la luna appena spuntata
rende bianca la luce della sera.
Ora la campagna da inizio
Alla festa che incomincia,
e si direbbe che a quel suono
il cuore si riconforta.
I fanciulli fanno un rumore allegro
Gridando in gruppo sulla piazzetta,
e qua e là saltando.
Intanto il contadino torna fischiettando
Alla sua povera mensa e pensa
fra se e se al giorno di riposo.
Poi, quando, intorno ogni lume è spento
Ogni cosa tace
Si sente il martello battere, si sente la sega
Del falegname che è ancora sveglio
Nella sua bottega chiusa
E si affretta e si sbriga per finire il lavoro prima del chiarore dell'alba
Il sabato è il più piacevole di tutti i giorni,
pieno di gioie e di speranze, domani le ore
porteranno tristezza e noia.
Ognuno penserà al lavoro abituale.
O fanciullo scherzoso
Questa età tua felice
E' come un giorno pieno di allegria,
un giorno chiaro e luminoso,
essa precede la giovinezza.
Godi o fanciullo mio la tua è una condizione felice
Un età piena di gioia
Non voglio dirti altro;
ma non ti dispiaccia
che la tua festa tardi ancora a venire.

Tema: Il sabato del villaggio, scritto da Giacomo Leopardi nel 1829 a Recanati, fa parte dei "grandi idilli" e, come tale, si evidenziano da subito in tutto il componimento i temi della rimembranza e dell'evanescenza della giovinezza. Il tema predominante del componimento è rievocare "l'età fiorita", tema che peraltro si ritrova in altri idilli come in A Silvia, dove la ragazza è personificazione stessa della gioventù che sfiorisce. L'autore invita a non aspettarsi felicità dal futuro, perché come la domenica deluderà l'attesa del sabato, così la vita deluderà i sogni della giovinezza. Il Leopardi, quindi, ritiene di non doversi aspettare niente, in modo da non essere mai delusi.
Il poeta in questa lirica parla della vita che si conduce di sabato nel suo villaggio. Si può suddividere la poesia in due parti:
prima parte : descrittiva in cui regna l'allegria per i giorni di festa e successivamente il silenzio rotto dagli strumenti del falegname. I primi versi, infatti, oppongono la gioia ed il giorno alla serenità del sonno;
parte finale: riflessiva dove il poeta guarda al domani quando la quotidianità infonderà il tedio e riflette sulla fugacità della giovinezza.
Negli ultimi versi il poeta oppone l'oggi spensierato, metafora della giovinezza, al domani, simbolo della noia e della vecchiaia.

Forma metrica: Canzone libera. Settenari e endecasillabi si alternano e vi sono due versi non rimati (41 e 43).
In consonanza con le tematiche, anche il ritmo che nei primi versi è più incalzante, scorrevole e spensierato, diventa in chiusura, più pacato ed incline alla meditazione.
Sono presenti numerose figure retoriche, oltre a quelle evidenziate nel testo a fronte della poesia, vi sono:
Litote: "altro dirti non vo' " con la quale Leopardi esprime l'intenzione di non demoralizzare i giovani.
Climax: I personaggi realizzano un climax prima crescente dopo decrescente: la donzelletta (gioventù) - la vecchiarella (vecchiaia) - lo zappatore (età matura) - il garzoncello (gioventù).
Si possono notare inoltre, nella prima parte della poesia, allitterazioni con doppie (donzelletta, vecchiarella, novellando, sulla, bella, colli...) o con dittonghi (giorno, chiaro, ciascuno, gioia, stagion, pien, pensier, lieta).
L'uso dei diminutivi (donzelletta-vecchiarella-garzoncello) denota la tenerezza del poeta verso i suoi personaggi, in particolare per gli adolescenti.

 
Silvia ricordi ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando la bellezza risplendeva
nei tuoi occhi luminosi e fuggitivi
e tu, contenta e pensierosa, varcavi
la soglia della giovinezza?
Le silenziose stanze
e le vie circostanti risuonavano
al tuo continuo canto,
quando, mentre eri intenta ai lavori femminili,
sedevi ed eri contenta
del tuo vago futuro,
che avevi in testa.
Era il profumato mese di maggio e tu eri solita
così trascorrere la tua giornata.
Io, talora, abbandonando
gli studi letterati e i miei quaderni scritti
sui quali si consumava la mia vita,
dal balcone della casa paterna
ascoltavo il tuo canto
e il rumore della tua mano veloce
che scorreva sul telaio.
Guardavo il cielo sereno,
le strade indorate dal sole
e vedevo di qua il sole e di la le montagne.
Nessuna parola potrebbe dire
quello che io ho provato dentro di me.
Che pensieri piacevoli,
che speranze, che sentimenti,
o Silvia mia?
Come ci sembravano allora,
la nostra vita il nostro destino.
Quando mi ricordo di quella speranza
così grade, un sentimento duro
e inconsolabile mi opprime
e a me ritorna il desiderio
a dolermi della mia infelicità.
O natura, o natura perché non dai
quello che hai promesso prima?
Perché di tanto inganni i figli tuoi?
Tu, o Silvia, prima che l'inverno inaridisse l'erba,
indebolita e vinta da un male nascosto,
morivi, o fragile creatura,
e, mentre le lodi per i tuoi neri capelli
o ai tuoi sguardi innamorati e verecondi
non ti rallegravano il cuore;
ne le tue amiche nei giorni festivi,
conversavano d'amore con te
tu non vedevi
il fiorire dei tuoi anni.
(come tu sei morta)
Così poco dopo anche la mia dolce speranza moriva:
il destino ha negato i miei anni
anche la giovinezza hai come
sei fuggita in fretta
cara compagna della mia giovane età,
mia speranza tanto rimpianta.
Questo è il mondo tanto sognato?
Questi sono i diletti, l'amore, le opere e gli eventi
di cui così a lungo ragionammo insieme?
Questo è il destino degli uomini?
Quando è apparsa la vera e cruda realtà
tu misera, sei scomparsa; e con la mano
mi indicavi da lontano
la fredda morte e una muta tomba.

Tema: “A Silvia” (à Selva/natura) è l’inizio di una nuova stagione poetica, tra il ’28 e il ’30. Questo canto, composto a Pisa nel 1828, è dedicato a una fanciulla che il poeta realmente conobbe, forse Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta di tisi nel 1818.
Ma non è funebre commemorazione, non è neppure canzone per Silvia, in onore di lei: è una confessione del poeta. Nasce questo lungo e commosso colloquio con Silvia, la cui morte prematura diventa il simbolo delle speranze stesse del poeta, diminuite all’apparire della terribile verità della condizione umana. Tutto il canto è costruito sulle esperienze parallele della giovinezza di Silvia, precocemente troncata dalla morte, e delle illusioni del poeta. L’immagine della donna si smorza nel mito della speranza.
Silvia è rappresentata nel fiorire della sua giovinezza in primavera, invece la sua morte in inverno. Il rapporto con la vita della fanciulla con il valore metaforico della stagione della giovinezza e di quella della morte è che nella prima rispecchia il tempo di speranze e di gioie, invece nella seconda le delusioni e la morte. In questa canzone la Natura manifesta un duplice aspetto, ora ispirando serenità e dolcezza, ora vista come causa principale dell’infelicità umana; matrigna crudele e indifferente che mette al mondo i suoi figli senza che questi lo vogliano, inseriti in un meccanismo di vita e di morte.

Forma metrica: Canzone libera (costituisce il primo campione della cosiddetta ‘canzone libera’ leopardiana). Risulta di sei strofe a lunghezza varia. Settenari e endecasillabi si succedono secondo le esigenze dell’ispirazione e la rima non ha schema prestabilito. L’unico elemento di regolarità è dato dal ripetersi del settenario alla fine di ogni strofa. E' la prima canzone di questo tipo, che segna l'abbandono degli schemi tradizionali con stanze omometriche.

 
Qui sul fianco riarso del monte Vesuvio, tremendo annientatore, che nessun altro tipo di vegetazione rallegra, spargi i tuoi cespi solitari intorno, profumata ginestra, appagata dai deserti. Ti vidi anche un’altra volta adornare con i tuoi cespi le solitarie campagne che circondano le città che un tempo furono dominatrici di popoli, e sembrano rendere al viandante una testimonianza e costruire un monito dall’antica potenza ormai perduta della città con il loro cupo e silenzioso aspetto. Adesso torno a vedere in questo luogo te, che prediligi i luoghi tristi e abbandonati dalla gente, te che sei compagna di rovinate grandezze. Questi campi cosparsi di ceneri sterili e ricoperti dalla lava solidificata, che risuona sotto i passi del viandante, dove si annida e si contorce al sole il serpente, e dove all’abituale tana sotterranea torna il coniglio; furono villaggi prosperi e campi incolti, e biondeggiarono di messi, e risuonarono di muggiti di mandrie; furono giardini e ville sontuose, che offrirono gradita ospitalità al riposo dei potenti; e furono città famose che con i suoi torrenti di lava fuoriusciti dal cratere che erutta fuoco, il Vesuvio investendo con la lava seppellì con gli abitanti insieme. Oggi le rovine avvolgono il paesaggio desolato dove tu solo dimori, o fiore gentile e, quasi rivelando compassione per le altrui sciagure, emani un profumo dolcissimo che sale verso il cielo e che consola questo luogo di desolazione. Chi ha l’abitudine di esaltare con ottimismo la nostra condizione venga in queste campagne desolate e constati in che misura il genere umano stia a cuore alla natura che ci ama. E qui potrà anche giudicare opportunamente la potenza del genere umano, che la natura, crudele nutrice, quando l’uomo meno se lo aspetta, con una scossa impercettibile in parte distrugge in un momento e può con scosse un po’ più forti annientare del tutto. Su questi pendii sono rappresentate le sorti splendide e in continuo progresso dell’umanità.
Vieni a guardare e a verificare le tue certezze in questi luoghi, secolo stolto e superbo, che hai lasciato la via percorsa fino ad ora prima di te dal pensiero risorto con il Rinascimento e, volti i passi in opposta direzione, esalti il ritorno alle passate dottrine e lo chiami progresso. Tutti gli intellettuali di cui il destino ingiusto ti rese padre esaltano il tuo ragionare infantile, benché, talvolta, nel loro intimo, ti scherniscano. Io non andrò sottoterra macchiato di una simile vergogna, ma avrò rilevato nel modo più esplicito il disprezzo che nutro verso di te, benché sia consapevole che chi non piacque ai propri contemporanei è destinato ad essere dimenticato: nonostante io sappia che dimenticare preme chi alla propria età increbbe troppo. L’essere dimenticato, che con te sarà comune, fin da questo momento assai mi rido. Elabori progetti di libertà politica e civile e nel contempo assoggetti a dogmi irrazionali quel pensiero in virtù del quale soltanto risorgemmo in parte dalla barbaria medioevale e in nome del quale soltanto si avanza sulla strada della civiltà, la civiltà che sola rende migliore il destino della società. Non avevi la forza di accettare le conclusioni a cui era giunto il pensiero, ossia che la natura ci ha assegnato una condizione dolorosa e infima nella gerarchia degli esseri. Per questo volgesti le spalle a quel pensiero filosoficocce rese evidenti queste verità e, mentre fuggi, definisci vile chi segue queste dottrine e, viceversa, chiami coraggioso colui che illuminando se stesso o gli altri innalza, esaltandola, la condizione umana fino al cielo.
Un uomo di umile condizione ed infermo, che abbia grandezza d’animo e nobili sentimenti, non si vanta né si illude di essere ricco o forte e non ostenta ridicolmente una vita splendida o un fisico in piena salute fra la gente; ma senza vergognarsene non nasconde di essere debole e povero e si dichiara tale apertamente e giudica la sua condizione secondo quello che è in realtà. Non considero saggio e coraggioso, ma stolto quel essere vivente che, benché destinato a morire e cresciuto in mezzo ai dolori, dichiara di essere stato creato per provare piacere e stende scritti che trasudando orgoglio disgustoso, promettendo esaltanti destini e straordinarie felicità – quali non solo questa terra, ma anche il cielo intero ignora – a popoli che un maremoto, un’epidemia, una scossa di terremoto distruggono in un modo tale che a stento rimane il ricordo di essi. Considero indole nobile e dignitosa quella di colui che ha il coraggio di guardare in faccia il destino umano e che con franchezza, senza finzioni, riconosce la sorte dolorosa e l’insignificante e fragile condizione che ci furono assegnate; è quella che si rivela grande e forte nelle sofferenze, che non ritiene responsabili delle sue sciagure gli altri uomini, aggiungendo in questo modo alle sue miserie, tanto numerose, odio e ira tra fratelli, ossia un male ancora peggiore, ma attribuisce la colpa a colei che è la vera responsabile, che è madre degli uomini, in quanto li ha generati, ma, per il trattamento che riserva loro, è da considerarsi alla stregua di una matrigna. Considera la natura una nemica, pensando, come del resto è, che la società umana si sia unita e organizzata all’origine per combattere e contrastare la natura, ritiene che tutti gli uomini siano alleati fra loro, e tutti abbraccia con amore vero, prestando valido e sollecito aiuto e aspettando in cambio nei pericoli che a vicenda sovrastano gli uomini e nelle sofferenze della lotta che li accomuna contro la natura. Ritiene che sia da sciocchi armare la propria mano per contrastare un altro uomo e preparare insidie e danni al proprio vicino così come sarebbe sciocco in un campo circondato da nemici, proprio mentre infuriano gli assalti, dimenticandosi di questi, aprire ostilità crudeli e feroci contro i propri compagni. Così fatti pensieri quando saranno, come furono agli inizi dell’umanità, evidenti al popolo, e quel terrore che alle origini spinse agli esseri umani a stringere legami sociali contro le forze naturali ostili sarà ricondotto da una vera conoscenza, allora i rapporti civili ispirati ad onestà e rettitudine, la giustizia e la pietà, avranno un ben diverso fondamento che non le fantasie piene di presunzione e prive di consistenza, basandosi sulle quali l’onestà umana suole stare in piedi, così come può stare in piedi tutto quello che si fonda sull’errore.
Spesso in questi luoghi alle pendici del vulcano che, desolate, la lava solidificata ricopre di scuro, e sembra accavallarsi come onde marine, trascorro la notte; e sulla campagna triste in azzurro purissimo vedo dall’alto brillare le stelle, cui da lontano il mare fa da specchio, e tutto in giro di scintille nella cavità serena, immensa, del cielo brillare il mondo. E poi che gli occhi a quelle luci rivolgo, che agli occhi sembrano un punto, mentre sono immense, tanto che rispetto a loro la terra e il mare sono davvero un punto; per quelle stelle non solo l’uomo, ma anche questo pianeta dove l’uomo è nulla è sconosciuto del tutto; e quando scruto quella ancora lontana nebulosa, che a noi pare quasi nebbia, a cui non l’uomo e non la terra soli, ma insieme, infinite nel numero e nella grandezza, le stelle del nostro sistema solare, compreso il sole luminoso o sono sconosciute, o così paiono come essi alla terra, un punto di luce nebulosa; al pensiero mio che sembrino allora, o genere umano? E io, ricordando la tua condizione miserevole, di cui è testimonianza il luogo in cui mi trovo che, nonostante ciò, tu, credi di essere stata destinata ad essere dominatrice e scopo ultimo dell’universo, e quante volte ti sei compiaciuta immaginando che gli dei, creatori dell’universo, siano scesi in questo oscuro granello di sabbia che ha nome a terra per prendersi cura di te ed abbaino conversato con piacere insieme agli uomini e che perfino il secolo attuale, che pare di tanto superiore alle età precedenti per conoscenze e grado di civiltà, col restaurare le credenze religiose schernite nel Settecento, insulta coloro che conservano un po’ di saggezza, quale sentimento o quale riflessione prevale allora in conclusione nei tuoi riguardi, o infelice genere umano? Non so dire se prevale il riso per l’assurdità dei tuoi errori o la pietà per il bisogno di conforto che ti induce a quelli.
Come un frutto di modeste dimensioni, nel cadere da un albero, che il semplice processo di maturazione fa precipitare a terra in autunno inoltrato, senza l’intervento di alcuna forza e schiaccia, annienta e sommerge in un attimo gli amati nidi scavati dalle formiche con grande fatica e lavoro e provviste che i laboriosi insetti avevano accumulato con previdenza, a gara, durante l’estate; allo stesso modo le tenebre ed una valanga piombando dall’alto, dopo esser stata scagliata verso il cielo dalle viscere rombanti del vulcano, oppure un’immensa piena di massi liquefatti, o di metalli e di arena infuocata, scendendo furiosa tra la vegetazione lungo il pendio della montagna, devastò, distrusse e ricoperse in pochi istanti le città che il mare lambiva là sulla costa: per cui sopra le città sepolte oggi pascolano le capre, e nuove città sorgono dall’altra parte, distanti dal mare, di cui le città sepolte costituiscono le fondamenta, e le mura diroccate, l’altro monte al suo piede quasi calpesta. La natura non nutre verso la specie umana più sollecitudine e interesse di quanto nutre verso le formiche, e se avviene che le stragi sono meno frequenti tra gli uomini che tra le formiche, ciò dipende solo dal fatto che la stirpe degli uomini è meno feconda.

 
INTRODUZIONE

I Promessi Sposi I "Promessi Sposi" sono il primo grande romanzo italiano di intonazione realistica. Precisiamo subito, però, che il "realismo" manzoniano si inquadra in una concezione idealistica della vita: esso nasce dall'esigenza dell'Autore di aderire con scrupolo alla storia degli uomini, ma è in funzione di un riscatto dell'umanità destinato a compiersi nell'aldilà.
Il Manzoni nell'introduzione del romanzo racconta di aver trovato un manoscritto anonimo; questi dice che mentre i grandi storici parlano solamente delle imprese di grandi uomini lui vuole parlare delle imprese di persone del popolo. Il Manzoni dice che la storia raccontata dall'anonimo gli piacque per cui vuole rifarla in una lingua più nuova. Manzoni fa finta che i Promessi Sposi raccontino una vicenda vera, raccontata da un anonimo e da lui tradotta in una lingua moderna. Il Manzoni dice tutte queste cose perchè vuole far vedere al lettore che la sua storia è vera e non è una semplice invenzione. Già nell'introduzione, dietro il pensiero dell'anonimo si nota la concezione della storia per il Manzoni, cioè la storia non è fatta solo dai grandi personaggi ma anche dal popolo. La storia secondo Manzoni è fatta di bene e di male, del peccato e della salvezza. A proposito di ciò, è molto importante l'idea cristiana: cioè la storia, per Manzoni, è importante perchè nella storia e nella vita di tutti gli uomini, egli vede sempre la provvidenza di Dio, quindi è una visione religiosa, provvidenziale, perchè Manzoni nel romanzo vuole parlare soprattutto del bene e del male. La vita è essenzialmente "dolore", l'egoismo non paga, la fede in una superiore Giustizia resta l'unica risorsa dell'uomo per fargli accettare la vita come dolore e il Bene come un valore. Si spiega così nel romanzo la costante presenza della Provvidenza, che non è un personaggio a sé stante come i miti delle divinità pagane nelle opere classiche, ma è indistintamente, impalpabilmente dappertutto: è l'anima stessa della storia. D'altra parte la storia, al di là delle apparenze che ce la mostrano assai spesso in contrasto con la Legge di Dio, non può che tendere verso il fine supremo prescritto da Dio.Quindi i veri protagonisti del romanzo sono la Provvidenza e la Storia.
La novità più sorprendente del romanzo è data dalla presenza dei personaggi tratti dal popolo, dei cosiddetti "umili", che per la prima volta compaiono come protagonisti di un'opera letteraria. A questo mondo di umili il Manzoni aderisce con intima cordialità e profonda solidarietà. E se pure è vero che egli tratti quella povera gente con affetto e con simpatia ma pur sempre con un certo compiaciuto divertimento nel sottolinearne l'ingenuità od anche l'astuzia proverbialmente contadinesca, è senz'altro da scartare l'ipotesi di un atteggiamento volutamente malizioso ed è piuttosto da riscontrare in ciò la registrazione fedele di un rapporto genuino, non farisaico, fra l'Autore, aristocratico intellettuale, e le sue umili creature.
I personaggi dove meglio vediamo la religione cristiana sono: Fra Cristoforo Borromeo; dobbiamo ancora ricordare la famosa conversione dell'Innominato, in cui vediamo la presenza di Dio nel cuore di un uomo; dobbiamo ancora ricordare Don Rodrigo soprattutto nelle pagine finali quando s'ammala di peste e grazie alla sofferenza si salva l'anima. (provvida sventura). Dobbiamo anche ricordare la famosa Monaca di Monza Gertrude, poichè il Manzoni con dolore segue la sua sventurata vicenda. Nella pagina finale del romanzo, Renzo e Lucia, i quali cercano di capire il vero significato di tutto ciò che è successo a loro, capiscono che anche se nella vita si soffre, basta aver fiducia in Dio e così anche la sofferenza ci aiuta a diventare migliori (provvida sventura).
Abbiamo tre stesure. Il romanzo, la prima volta si chiamò "Fermo e Lucia" e presenta un maggiore pessimismo; poi con il titolo "Promessi Sposi" (II e III) il romanzo diventa più sereno ed equilibrato. Il carattere principale del romanzo è che le persone buone vengono sempre perseguitate ma alla fine il bene vincerà. I Promessi Sposi sono un romanzo romantico per l'amore della verità storica, per la grande religiosità e per l'amore di Manzoni verso gli umili. Il romanzo è un misto di storia e di invenzione in cui il Manzoni racconta un fatto privato e fatti più generali; questa unione fra la gente e la piccola storia rappresenta una novità.
Si parla di un filatore di seta, Renzo, e di una popolana, Lucia, che non si può sposare perchè un signorotto prepotente, Don Rodrigo, si è invaghito di lei; ma alla fine i due si sposano dopo molte vicende dolorose. Oltre a questo fatto privato si parla pure della Lombardia dominata dagli spagnoli, della Spagna e di altre regioni: si parla pure della carestia a Milano e della peste. Ha una grande importanza nei Promessi Sposi la folla che viene considerata la vera protagonista del romanzo; ma protagonista viene pure considerata la provvidenza: appunto per questo la differenza fra i Promessi Sposi e tutte le altre opere è che il Manzoni nei Promessi Sposi vede sempre la provvidenza nella storia e negli uomini.
Una grande importanza del romanzo è l'umorismo, che serve al Manzoni per dare un carattere medio giusto al suo racconto; cioè quando un fatto sta per diventare troppo tragico, il Manzoni con l'ironia e l'umorismo lo riporta a una certa normalità, facendo perdere a quel fatto l'eccessiva tragicità; per esempio: quando nel castello dell'Innominato abbiamo la figura di Lucia sofferente c'è anche la figura un po' comica della vecchia, la quale serve a rendere meno drammatica tutta la scena. Si ricordi il suo scritto "Della lingua italiana". Manzoni, mentre si preparava a scrivere, cercava una lingua popolare e nello stesso tempo letteraria; decide di usare la lingua fiorentina parlata dalle persone colte, poichè in Italia solo Firenze, dice Manzoni, ha una lingua nazionale, perchè vi sono poche parole straniere ed è già stata usata dai grandi trecentisti ( Dante, Petrarca, Boccaccio).
Il romanzo, quindi, è romantico anche per la lingua che è popolare pure se in modo moderato. A proposito della lingua, non ci sono espressioni parlate come ci saranno, invece, nel Verga. Un'altra differenza dal Verga e dai "veristi" è questa: tutti i personaggi parlano allo stesso modo di come parlerebbe il Manzoni, cioè il Manzoni non fa parlare i personaggi come parlerebbero veramente nella realtà, non si abbassa lui ai personaggi come farà Verga ed i veristi, ma li innalza a lui; per esempio, nell'addio ai monti le espressioni non sono certo quelle di due popolani. Bisogna anche dire che c'è ancora nel Manzoni un certo paternalismo, cioè lui tratta gli uomini come un padre tratta i figli, poichè crede che non sanno decidere da soli e hanno sempre bisogno di qualcuno, mentre nel Verga i personaggi sono più liberi.

PERIODO STORICO
Il Seicento è il secolo della preponderanza spagnola in Europa e particolarmente in Italia, dove, tranne qualche moto popolare suggerito dal disagio economico più che da precise idealità politiche (Masaniello a Napoli, Giuseppe D'Alessi a Palermo) l'atmosfera è di completa sottomissione alla Spagna, la cui influenza si fa sentire anche in quegli Stati che non sono soggetti alla sua autorità.
Solo da parte del Ducato di Savoia di profila una politica di maggiore indipendenza e talvolta di opposizione.
Gli avvenimenti europei più notevoli nella prima metà del Seicento sono la Guerra dei Trent'anni e la Rivoluzione inglese.
La Guerra dei Trent'anni è una nuova manifestazione delle lotte religiose, in cui, come sempre, si inseriscono precisi moventi politici. Nel suo corso (1618-1648), essa vede schierati gli uni contro gli altri i principali Stati dell'Europa. La conclude la pace di Westfalia, che segna il tramonto dell'egemonia degli Asburgo, il trionfo della Francia, il riconoscimento definitivo dell'indipendenza dell'Olanda e, sul piano religioso, la conferma dei diritti delle confessioni extracattoliche.
Ormai la Francia, anche per merito dei suoi grandi ministri (il cardinale di Richelieu e il cardinale Mazzarino), inizia la sua ascesa al ruolo di grande potenza, contrapponendosi in tal modo alla preponderanza spagnola.
In Inghilterra, intanto, a conclusione della guerra civile provocata dalla limitazione dei diritti del Parlamento da parte di Carlo I Stuart, nel 1648 la monarchia è deposta e l'anno successivo il re viene decapitato, mentre il potere è assunto da Oliviero Cromwell col titolo di Lord Protector.
Sotto il Cromwell si ha l'Atto di navigazione (1651), che costituisce la solenne affermazione dell'egemonia dell'Inghilterra sui mari.
Alla morte del Cromwell (1658) cui succede per breve tempo il figlio Riccardo, il popolo inglese restaura nel 1660 la monarchia con Carlo II Stuart. Morto quest'ultimo (1685) sale al trono Giacomo II, sotto il quale si ha la seconda rivoluzione che vede l'avvento al potere di Guglielmo III d'Orange, marito di Maria, figlia di Giacomo II.
In questa occasione, il Parlamento inglese fa giurare ai nuovi sovrani la Dichiarazione dei Diritti, che riconferma le tradizionali prerogative delle due Camere e dà all'Inghilterra la fisionomia di monarchia costituzionale che manterrà in futuro.
Grandeggia, nella seconda metà del Seicento, la figura del re di Francia Luigi XIV (1643-1715) che durante i settantadue anni del suo regno assicura al suo Paese un incontestabile primato in Europa. Sotto di lui l'assolutismo monarchico raggiunge il suo culmine.
Per quanto riguarda l'Italia il trattato di Cateau-Cambrèsis assegnò alla Spagna il dominio su quasi tutta l'Italia, che fu il peggiore fra quanti essa dovette sopportare: scomparve ogni sentimento di indipendenza e di libertà politica; il fiscalismo avvilì i sudditi e impoverì il paese; industria e commercio decaddero, le terre furono abbandonate; la popolazione diminuì paurosamente.
Ma non meno che nel campo materiale, quel triste governo influì su quello morale: la servitù insegnò a mentire ed adulare, la prepotenza dei dominatori fu imitata dai signorotti italiani che servivano vergognosamente i potenti e opprimevano i fratelli che stavano in basso.
Le leggi c'erano ma non c'era chi le facesse rispettare, sicchè regnava l'arbitrio e la vendetta privata. Al posto del sentimento religioso dominava l'ipocrisia. Ogni ideale era scomparso.
Le pagine dei promessi Sposi del Manzoni sono la più luminosa testimonianza di questo periodo storico.

LA STRUTTURA DE «I PROMESSI SPOSI»
Prologo
Introduzione.
Scambio della promessa di matrimonio fra Renzo e Lucia (parte inferibile dal testo all’inizio del III capitolo).
Don Rodrigo scommette con don Attilio che farà sua Lucia (capitolo III: don Rodrigo-Lucia-Attilio nel racconto di Lucia).
Orientamento
Descrizione del primo capitolo.
Azione complicante
Intimidazione rivolta dai bravi a don Abbondio affinché non celebri il matrimonio.
Peripezie
Tentativo di soluzione di Renzo => Azzecca-garbugli (capitolo III).
Tentativo di soluzione di padre Cristoforo => don Rodrigo (capitoli V e VI).
Tentativo di soluzione di Renzo (e Lucia) => matrimonio segreto (capitolo VIII).
||
Fallimento dei tentativi e divisione degli amanti (capitolo VIII-IX)
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Renzo a Milano (capitoli dall’XI al XVI)
Lucia a Monza (capitoli IX-X...)
||
Renzo viene scambiato per un agitatore della rivolta e arrestato (capitolo XV)
Lucia è rapita dall’Innominato (capitolo XX)
||
Renzo riesce a liberarsi (capitolo XVI)
Le sue preghiere «convertono» l’Innominato (capitolo XXI)
||
Renzo raggiunge l’Adda e il Bergamasco (capitolo XVI)
Lucia è liberata e ospite di donna Prassede e don Ferrante (capitolo XXV)
||
Scoppia l’epidemia di peste (capitoli XXXI e seguenti)
||
Renzo si ammala (capitolo XXXIII)
Lucia si ammala
Don Rodrigo si ammala (capitolo XXXIII)

Scioglimento
Renzo, guarito, si reca a Milano (capitolo XXXIV) dove ritrova Lucia (capitolo XXXVI).
Renzo incontra don Rodrigo agonizzante e lo perdona (capitolo XXXV).
Fra Cristoforo scioglie il voto di castità pronunciato da Lucia (capitolo XXXVI).
Renzo e Lucia si preparano al matrimonio (capitoli XXXVII e XXXVIII).
Coda
Commiato manzoniano ai suoi lettori: captatio benevolentiae10 relativamente alla «storia» narrata (capitolo XXXVIII).
Vicende di Renzo e Lucia sposi: i figli numerosi; i giudizi sulla bellezza di Lucia (capitolo XXXVIII).

REFERENTE STORICO
Realtà politica, sociale ed economica della Lombardia soggetta al domino spagnolo nella prima metà del XVII secolo.

REFERENTE D’INVENZIONE
Renzo (Lorenzo Tramaglino), filatore di seta della zona di Lecco. Egli vuole sposare Lucia (Mondella), filatrice di seta sua compaesana, ma viene ostacolato da don Rodrigo, signorotto del luogo.

MESSAGGIO
1) Denotazione
Renzo e Lucia superano ogni difficoltà e si sposano.
2) Connotazione
L’uomo, anche di fronte alla situazione più disperata, non deve mai perdere la sua fiducia in Dio.
Dio, anche quando sembra indifferente e distaccato, provvede in realtà al riscatto e alla salvezza dell’uomo. Il dolore, poi, non è fine a se stesso, ma, nel progetto divino, prepara all’uomo una gioia più grande .

ROMANZO STORICO:
Genere letterario misto di storia ed invenzione; può essere considerato come un prodotto squisitamente romantico proprio per la ricostruzione storica in modi fantastici e sentimentali.
L’interesse per il romanzo storico era stato suscitato in Manzoni dalla lettura del romanzo «Ivanhoe» dello scozzese Walter Scott (1771-1832).
1) Storia
Manzoni raccolse con lo scrupolo di un vero «storico» tutti i particolari dell’età in cui doveva svolgersi l’azione: libri di storia (del Ripamonti, Tadino, Rivola, Pietro Verri), opere cavalleresche (del Birago, Olevano, Barzagni), mappe dettagliate della Milano seicentesca; raccoglie nomi, soprannomi, calendario, costumi, grida.
2) Invenzione
E’ la storia dei due promessi. Manzoni finge di averla trovata nel manoscritto di un autore anonimo del ‘600.

PERSONAGGI STORICI RINTRACCIABILI NEL ROMANZO 1) Il cardinale Federigo Borromeo;
2) l’Innominato, in cui rivive Bernardino Visconti;
3) Gertrude, ovvero Marianna de Leyda;
4) padre Cristoforo, al quale corrisponde, in parte, Lodovico Picenardi di Cremona;
5) gli uomini di governo.

FATTI STORICI RIEVOCATI DAL ROMANZO 
1) La carestia del 1628;
2) la sommossa milanese del novembre 1628;
3) la conversione di Bernardino Visconti;
4) il passaggio dell’esercito imperiale (Lanzichenecchi) per recarsi all’assedio di Mantova;
5) la guerra di successione per Mantova e il Monferrato;
6) la peste del 1630 a Milano e in Italia.

CODICE E REGISTRO Nel primo ‘800 gli scrittori italiani, seguendo la nostra tradizione letteraria, adottavano ancora un registro di tipo aulico/formale/accademico, anche per la costante riproposta di registri stilistici e lessicali ormai vecchi di secoli, per quanto prestigiosi. Manzoni, invece, avvertì la necessità di una lingua italiana unitaria, di una lingua cioè comprensibile alla gran parte degli italiani. Non scelse però il dialetto lombardo (rifiutò anche gli idiotismi lombardi del manoscritto) bensì il fiorentino parlato dalle persone colte, «il fiorentino ben parlato», perché esso forniva garanzie di prestigio, di espressione e di comprensione in larghi strati della popolazione.
La riforma manzoniana del linguaggio influenzò tutti gli autori italiani successivi, anche se possono essere considerati come eccezioni il D’Annunzio, che adotta un linguaggio «archeologico» fatto di citazioni e reminiscenze letterarie, e il Carducci.
Il suo linguaggio è dunque vivo e colorito, perché ricavato dalla comunicazione quotidiana dei parlanti. Stilisticamente sono frequenti l’uso dell’ironia e delle similitudini a fini espressivi e chiarificativi. Vediamone alcuni esempi tratti dal primo capitolo:
a) «i soldati spagnoli... insegnavan la modestia alle fanciulle... accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, ...non mancavan mai di diradar l’uve...»;
b) su don Abbondio: «non avesse anche lui un po’ di fiele in corpo... tanti bocconi amari inghiottiti in silenzio...; (aiutare un oppresso) ... era per lui un comprarsi gl’impicci a contanti, un voler raddrizzar le gambe ai cani.»
c) «(Perpetua era nubile) per non aver mai trovato un cane che la volesse...»; dice: «il nostro arcivescovo è un uomo di polso... quando può far stare a dovere uno di quei prepotenti, ci gongola...; le schioppettate non si danno mica via come confetti: e poi se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano... a chi sa mostrare i denti gli si porta rispetto...»;
d) don Rodrigo «... è tempo di dir codeste baggianate?»
La scelta di Manzoni per una lingua popolare riflette la sua predilezione, sociale e morale, per i deboli, per gli oppressi, per i poveri: egli porta in primo piano nel suo romanzo tutti coloro che (come Renzo, Lucia, Agnese, Perpetua, Tonio, ecc.) erano sempre stati dimenticati dalla letteratura precedente, attenta solo ai grandi avvenimenti e ai personaggi famosi.
L’aggettivazione usata da Manzoni non è semplicemente esornativa, ma esprime un giudizio morale. Vediamo alcuni esempi dal capitolo X e XIII:
a) su Egidio: «giovane scellerato di professione»;
b) su Gertrude: «la sventurata rispose»;
c) sul vecchio della sommossa: «vecchio mal vissuto... due occhi affossati e infocati... compiacenza diabolica... canizie vituperosa».
Anche la metafora non è esornativa, ma esplicativa dei sentimenti dei personaggi; gli esempi sono tratti dal primo capitolo e dal VI:
a) «(don Abbondio) era un animale senza artigli e senza zanne... un vaso di terracotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro...»;
b) «Questo nome (don Rodrigo) fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte del temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti, e accresce il terrore»;
c) padre Cristoforo, offeso da don Rodrigo: «abbassò il capo, e rimase immobile, come, al cader del vento, nel forte della burrasca, un albero agitato ricompone naturalmente i suoi rami, e riceve la grandine come il cielo la manda.»

IL MODELLO COMUNICATIVO Il narratore (cioè il Manzoni, autore virtuale) si rivolge direttamente in prima persona ad un narratario (cioè il lettore virtuale presupposto dal Manzoni). Infatti si legge nel primo capitolo: «... si troverà chi duri la fatica di leggerlo... I miei venticinque lettori». Tale narratario è di media cultura, benpensante e moderato.
Quindi il Manzoni gli si rivolge nel fiorentino parlato dalle persone colte, gli tace la canzonaccia dei bravi (capitolo I), i discorsi strani di Gertrude (capitolo IX), i crimini dell’Innominato (capitolo XXI), i piani delittuosi di don Rodrigo e del Griso (capitolo VII) e disapprova l’entusiasmo di Renzo per i tumulti di Milano (capitolo XI).
Ci sono diversi modi del narratore di rapportarsi con la materia trattata:
1) mimesi (dialoghi, monologhi, soliloqui dei personaggi): il narratore è assente. Ad esempio: dialogo fra don Abbondio e Perpetua (capitolo I); dialogo fra don Abbondio e Renzo (capitolo II); soliloquio di don Abbondio (inizio capitolo VIII). Il procedimento mimetico usato dal Manzoni, soprattutto nelle vicende d’invenzione, è sottolineato dal registro linguistico che appare di tipo semplice/basso/realistico, come quello di Renzo e Perpetua, più accademico quello di don Abbondio o di Azzecca-garbugli.
2) Diegesi (descrizioni, commenti, riassunti giudizi, resoconti di ciò che i personaggi non hanno né detto né sentito): il narratore si manifesta come la «voce fuori campo» del cinema. Ad esempio: la descrizione del lago di Como (capitolo I); l’aspetto dei bravi (capitolo I); la citazione delle grida (capitolo I); l’abito di Lucia (capitolo II); i gesti e i pensieri di Renzo mentre si reca da Azzecca-garbugli (capitolo III). Il procedimento diegetico è quello prevalente nel romanzo ed esprime tutto quello che non può essere detto col semplice dialogo fra i personaggi.
3) Discorso trasposto (nel quale la citazione è riferita con parole che non sono esattamente quelle pronunciate dai personaggi): il narratore si nasconde. Ad esempio: «Addio, monti sorgenti dalle acque... di tal genere, se son tali appunto erano i pensieri di Lucia...» (capitolo VIII).
Ogni narratore, inoltre, delinea i fatti con una prospettiva particolare, con un particolare punto di vista. A seconda della prospettiva il racconto, o la narrazione, può essere:
1) a focalizzazione interna (quando il narratore sa, vede, pensa attraverso uno, interna fissa, o più personaggi, interna variabile o multipla): nei Promessi sposi ricorre di rado. Ad esempio: dopo che i bravi, vestisti da mendicanti, sono passati nella casa di Agnese: «... che razza d’uomini fossero, non si sarebbe potuto dire facilmente; ma non si poteva credere neppure che fossero quegli onesti viandanti che volevano parere» (capitolo VII Manzoni limita la sua autorità riferendo solo ciò che i personaggi percepiscono o percepirebbero); «Lucia lo vide e rabbrividì; scese con l’occhio giù giù per la china, fino al suo paesello, guardò fisso all’estremità, scoprì la sua casetta... Addio monti...» (sentimenti e pensieri sono di Lucia, il registro colto del discorso è, invece, del narratore);
2) a focalizzazione esterna (quando il narratore ne sa meno dei personaggi e racconta «dall’esterno» i loro comportamenti): nei Promessi sposi non ricorre mai;
3) a focalizzazione zero o del «narratore onnisciente» (quando il narratore sa, o racconta, più di quanto sappiano e vedano, o possano sapere, i personaggi, permettendosi anche incursioni nella loro mente e psicologia). E’ la forma di racconto prevalente nei Promessi sposi, tipica del resto i tutto il romanzo tradizionale. Alcuni esempi in cui noi troviamo il narratore onnisciente sono: «quel ramo del lago di Como... Per una di quelle stradicciole tornava bel bello...» (inizio del primo capitolo); il narratore entra perfino nella mente di personaggi come Gertrude, esprimendone le inquietudini interiori (capitoli IX e X), come l’Innominato, riferendoci i suoi pensieri (capitolo XX), o quelli di don Abbondio alla vista dei bravi (primo capitolo).

IL TEMPO DELLA NARRAZIONE
Per analizzare un racconto dal punto di vista del tempo occorre distinguere tra fabula e intreccio.
FABULA: comprende gli avvenimenti, i personaggi, gli ambienti del racconto: è la storia che viene raccontata; si può divider in sequenze ordinate secondo la successione logico-temporale.
INTRECCIO: sono gli enunciati narrativi tramite cui si comunica il contenuto della narrazione: è il discorso utilizzato dall’autore per narrare la storia.
Quando si ha discordanza fra l’ordine dell’esposizione degli eventi nell’intreccio, da una parte, e nella fabula, dall’altra, si parla di anacronia, che può presentarsi come:
1) prolessi, quando si anticipa un evento successivo;
2) analessi, quando vi sono delle retrospezioni, cioè dei flashback.
Nei Promessi sposi l’esposizione è prevalentemente lineare, infatti gli eventi sono narrati secondo la progressione naturale del tempo; non abbiamo prolessi, ma talora analessi: come nel flashback sulla vita passata di padre Cristoforo o nel flashback sulla vita passata di Gertrude.

IL TEMPO DELLA STORIA (TS) Inizio il 7 Nov. 1628:
è prossimo il tempo dell’Avvento, durante il quale nessun matrimonio si celebra, per cui don Abbondio temporeggia. Tra il 7 e l’11 Novembre si collocano i capitoli I-VIII.
11 Novembre:
scade la scommessa fra don Rodrigo e Attilio. Il giorno 11 Lucia riceve ospitalità a Monza (capitoli XI-XIV). Due giorni dopo Renzo arriva a Bergamo (capitoli XV-XVIII).
Dopo un mese circa:
Lucia viene rapita (la vicenda dura 24 ore). La protagonista viene condotta al suo paese (capitoli XX-XXIV).
Qualche giorno dopo:
Lucia è ospitata da donna Prassede in una villa e poi a Milano (capitolo XXVII).
Dic. 1628-Autunno 1629:
la situazione non cambia: Renzo a Bergamo, Lucia a Milano.
Autunno 1629-Ago. 1630:
dopo la carestia, arriva la peste.
Agosto 1630:
Renzo lascia Bergamo, sosta un giorno nel suo paese, quindi si reca a Milano: nel lazzeretto rivede Lucia.
Ottobre 1630:
Lucia raggiunge Renzo al paese. Si sposano.
IL TEMPO DEL DISCORSO, DEL RACCONTO (TR) Capitoli 1-17: 7 giorni;
capitoli 18-19: alcune settimane;
capitoli 20-24: due giorni;
capitoli 25-26: lieve accelerazione;
capitoli 27-32: due anni (dal Novembre 1628 all’Agosto 1630);
capitoli 33-38: ritmo lento fino alla lieve accelerazione della conclusione.
Le forme temporali utilizzate dal narratore possono essere così elencate:
1) la pausa (o digressione), in cui il tempo della fabula è nullo (è come se la progressione del racconto si fermasse: TS=0): qui il narratore fissa l’universo dei valori, commentando gli avvenimenti con massime di carattere religioso e morale, con valutazioni politiche o storiche. Qualche esempio sono: «E’ una delle facoltà singolari e incomunicabili della religione cristiana, il poter indirizzare e consolare chiunque, in qualsivoglia congiuntura, a qualsivoglia termine, ricorra ad essa» (capitolo X); «Era (la tortura) uno di que’ rimedi eccessivi e inefficaci dei quali, a quel tempo... si faceva tanto scialacquo» (capitolo XXXIV); «Ne’ tumulti popolari c’è sempre un certo numero di uomini che, o per riscaldamento di passione..., fanno di tutto per ispinger le cose al peggio...» (capitolo XIII); e «In un paese e in un’epoca vicina (Francia 1789)... si ricorse... a simili espedienti e ciò principalmente perché la gran massa popolare poté far prevalere a lungo il suo giudizio e forzare la mano a quelli che facevan la legge.»;
2) la narrazione rallentata (TR maggiore di TS): quando l’autore indaga per intere pagine una sensazione o un pensiero;
3) la scena dialogata, in cui il tempo dell’intreccio e quello della fabula coincidono (TR=TS), si ha, ad esempio nei dialoghi fra don Abbondio e Perpetua, in quello fra padre Cristoforo e don Rodrigo, fra l’Innominato e Lucia, eccetera;
4) il sommario, in cui il tempo dell’intreccio è più breve del tempo della fabula (TR minore di TS), quando il Griso fa la relazione a don Rodrigo sulla notte degli imbrogli (capitolo XI), o nel racconto del Manzoni sull’Innominato (capitolo XXI), o sul ravvedimento di Gertrude (capitolo XXIX) e, anche, nell’esposizione delle parti storiche;
5) l’ellissi, in cui, invece, il tempo dell’intreccio è nullo (TR=0), vengono infatti omessi dal discorso fatti avvenuti nel tempo ma che non interessano la narrazione. Ad esempio: su padre Cristoforo, «non è nostro disegno far la storia della sua vita claustrale» (capitolo XIV); o, su Gertrude, «i suoi discorsi divennero a poco a poco così strani che, invece di riferirli...» (capitolo IX); e su Renzo «noi riferiremo solo alcune delle parole che mandò fuori, in quella sciagurata sera» (capitolo XIV).

LO SPAZIO DELLA STORIA, DELLA FABULA Capitoli 1-8:
villaggio sul ramo orientale del lago di Como (lago di Lecco), il nome non è citato: potrebbe essere Olate o Acquate;

capitolo 5:
a Lecco da Azzecca-garbugli;
capitolo 9:
Lucia a Monza;
capitolo 11:
Renzo a Milano;
capitolo 17:
Renzo a Bergamo dopo il tumulto milanese;
capitolo 27:
anche Lucia è a Milano, dopo il rapimento, ospite di donna Prassede: ecco che ci si avvia al lieto fine, col ricongiungimento nel paese natio;
capitolo 38:
dopo il matrimonio i tre tornano nel Bergamasco e, anche per critiche alla bellezza di Lucia, Renzo acquista un filatoio e si trasferisce definitivamente alle «porte di Bergamo».

LO SPAZIO DEL DISCORSO, DELL’INTRECCIO Il narratore, nella descrizione dei luoghi, manifesta esigenze di realismo, gusto documentario, interesse per la storia urbanistica. Ad esempio, su Renzo a Milano: «Quando Renzo entrò per quella porta, la strada di fuori non andava diritta che per tutta la lunghezza del lazzaretto... La porta consisteva in due pilastri...» (capitolo XI); o «Lì c’era una colonna, con sopra una croce, detta di S. Dionigi... La strada che Renzo aveva preso andava... al canale detto il Naviglio.»
Il riferimento, poi, alle differenze tra la Milano del ‘600 e quella presente al Manzoni, mostra un tentativo costante di mantenere vivo il contatto con il narratario (funzione fatica e referenziale).
Prendendo spunto dalle funzioni linguistiche secondo lo schema di Jakobson, infatti, possiamo rintracciare nella narrazione una funzione narrativa esercitata dal narratore, una funzione fatica (di contatto fra narratore e narratario), una funzione meta-narrativa o «di regia» (quando il narratore mette in evidenza l’organizzazione interna del suo racconto, ad esempio nel capitolo II) e una funzione referenziale (nelle descrizioni); occorre osservare che nella narrazione la funzione conativa o persuasiva (quando il narratore vuole influenzare il lettore) può assumere anche l’aspetto di funzione ideologica quando il narratore commenta esprimendo valutazioni personali e, allo stesso modo, la funzione emotiva o espressiva può divenire funzione testimoniale, quando il narratore fa riferimento a se stesso come testimone di ciò che racconta o fa riferimento a una fonte.

Alessandro Manzoni (Milano 1785-1873).
Illuminista (fiducia nella ragione), anticlericale e antiaustriaco in gioventù.
Dopo il 1805 entra in contatto, in Francia, con gli scrittori romantici (attenzione ai sentimenti e all’interiorità della persona, rifiuto del classicismo).
Nel 1810 si converte al cattolicesimo.
Convinto assertore della funzione della Chiesa in campo spirituale (neoguelfo), è contrario al potere temporale dei papi e all’esistenza dello Stato Pontificio, vuole Roma capitale d’Italia (cattolico liberale).
Dimostra sempre interesse profondo per le classi più deboli e oppresse, tuttavia condanna con uno scritto i metodi violen ti della Rivoluzione francese del 1789.
- Ha fiducia nella ragione e nei sentimenti dell’uomo.
- E’ cristiano e cattolico, crede nella Provvidenza divina.
- Crede la conversione dell’uomo a Dio sempre possibile.
- E’ sensibile al dramma degli umili, dei poveri, degli oppressi, dei diseredati.
- Ha una visione positiva della funzione storica della Chiesa cattolica.
- E’ critico verso il malgoverno, lo sfruttamento, l’ingiustizia, la tortura.
- Deplora ogni rivoluzione violenta, anche se legittima - Rifiuta la demagogia dei politici.
Manzoni si rivolge ad un lettore di media cultura, benpensante e moderato.

LA GIUSTIZIA IN MANZONI
Sin dalle prime pagine de "I promessi sposi", il Manzoni ci presenta una società violenta, dove le questioni (come dice lo stesso don Abbondio, durante il colloquio con Renzo) non si discutono in termini di torto o di ragione, ma in termini di forza. I principali responsabili di questa drammatica situazione, sono, sempre secondo l'Autore, i vari signori e signorotti locali, i quali, disponendo di un'elevata influenza sulle istituzioni giudiziarie e protetti da piccoli eserciti personali di bravi, eludono con facilità le gride ( leggi ) per far valere il proprio potere d'oppressione sulla popolazione. Il clima d'ingiustizia e di violenza è quindi determinato dall'ancora forte potere feudale, personificato nella figura di don Rodrigo, e dalla totale inefficacia dell'apparato giudiziario spagnolo, la cui organizzazione burocratica, lenta e macchinosa, non riesce a garantire ai cittadini la protezione necessaria. 
Così, l'unica "giustizia" rispettata è quella di don Rodrigo e di quelli che, come lui, dispongono della violenza come strumento di dominio. Ma non basta. Anche gli intellettuali, uomini di chiesa come no, sono asserviti alla causa del potere, e sono costretti ad accettarne le logiche di sfruttamento. Don Abbondio, l'Azzecca-garbugli, uomini comuni, persone di per sé innocue, lontane dal sangue e dalla violenza, divengono, insieme alla stessa cultura che possiedono, le vittime e gli strumenti dell'oppressione. Appare quindi chiaro, a questo punto, il senso delle parole del Manzoni: gli oppressori, non si limitano a esercitare la violenza sui deboli, ma coinvolgono nelle loro logiche anche uomini prima estranei al terribile sistema dell'"ingiustizia organizzata".
Oltre però agli intellettuali che diventano uno strumento nelle mani del potere, macchiandosi di delitto, le parole dell'Autore si riferiscono anche a un altro tipo di induzione alla violenza e all'odio: quella che i quotidiani episodi d'oppressione suscitano nella povera gente. Dalla base della piramide sociale, si vedono salire infatti, oltre alle lacrime dei deboli sfruttati, anche le loro parole di rabbia, di odio, di indignazione, di vendetta. Ed è a questo proposito che il Manzoni scrive la sua massima: "I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi". Infatti, dopo aver appreso la verità, e cioè che il suo matrimonio con Lucia è impedito dal volere di don Rodrigo, la prima reazione di Renzo è quella di progettare tremendi propositi di vendetta. Improvvisamente, la figura di Renzo si stravolge, e quel giovane "pacifico e alieno dal sangue" che era, si trasforma in un aspirante assassino. Avrebbe voglia di farla finita e, pur con i suoi scarsissimi mezzi, di affogare nel sangue la boria di don Rodrigo. Nella sua mente vorticano improvvisamente turpi progetti di morte: agguati, omicidi, vendette. La sua metamorfosi, veloce e drammatica quanto disperata, colpisce il lettore e lo spinge a riflettere sulle parole dell'autore. È il circolo vizioso dell'odio e della violenza (il forte opprime il debole che impara ad odiare a sua volta) che trasforma la storia umana, e non solo quella del Seicento, in una immensa carneficina, in una grande valle di rabbia e oppressione. Ma a questo punto interviene il tema della provvidenza divina, tanto caro al Manzoni, che fornisce il modo per spezzare il circolo che aggiunge male al male.
Così come l'immagine di Lucia riporta la ragione nella mente di Renzo e lo riconduce sulla sua strada, così come la sua ferma fiducia in Dio e nella giustizia divina, riporteranno la luce nell'oscurità dei biechi pensieri di Renzo, la provvidenza promette al debole la redenzione e il riscatto dall'oppressione, a patto che sia lui, il primo a interrompere il circolo di sangue, non rispondendo alla violenza con altra violenza (nel Vangelo, Cristo stesso dice: "Se ti danno uno schiaffo, tu non rispondere, ma porgi l'altra guancia"). Lucia stessa griderà all'armata a Renzo, sentiti i suoi propositi: "No, no, per amor del cielo! Il Signore c'è anche per i poveri; e come volete che ci aiuti, se facciam del male?".
In queste parole, il Manzoni ci lascia un profondo messaggio, la fiducia nella giustizia divina come unico mezzo di ribellione alle logiche della violenza che, in ogni minimo sopruso, alimentano lo spettro del male che aleggia su tutta la storia umana.
VITA DI ALESSANDRO MANZONI
Alessandro Manzoni nasce a Milano nel 1785 da Pietro e Giulia Beccaria. Il matrimonio dei genitori non è felice , fu fatto per interesse in quanto il patrimonio dei Beccaria era in dissesto ; Giulia Beccaria lascia così il marito . Si separerà nel 1792, unendosi a Carlo Imbonati andando a vivere a Parigi. Alessandro vive dapprima in collegio, ma, dopo la morte del padre, raggiunge la madre. Gli anni nella capitale francese, dal 1805 al 1810, sono decisivi nella sua formazione culturale, che è sostanzialmente di stampo illuminista, razionalista e anticlericale. L'avvenimento più importante della sua vita sarà perciò la conversione al cattolicesimo, che avverrà intorno al 1810, due anni dopo il suo matrimonio con Enrichetta Blondel. Proprio Enrichetta lo porterà, in seguito, a rivedere i suoi giudizi critici verso la religione, tanto che nel 1810 il Manzoni decide di convertirsi al cattolicesimo, coinvolgendo in questa decisione anche la moglie. Lo stesso anno della sua conversione Manzoni torna a vivere a Milano, dove resterà poi fino alla morte, ad eccezione di alcuni mesi trascorsi a Parigi, tra il 1819 e il 1820, e di qualche breve viaggio a Firenze, nel 1827 e nel 1856.
L'esistenza dello scrittore trascorre quindi nel lavoro e nell'intimità familiare, lontano dalla curiosità e dagli impegni mondani, tra Milano e la sua villa di Brusuglio, nella campagna lombarda. Ecco perché, oltre alle date di pubblicazione delle sue opere, pochi sono i fatti da registrare della sua lunga vita, protrattasi fino al 1873 e attraversata da dolorosi lutti: la morte, nel 1833, della prima adorata moglie; poi, quella della madre, nel 1841; della seconda moglie Teresa Stampa, nel 1861; e infine di ben sei dei suoi otto figli. Tra i pochi avvenimenti della vita manzoniana si ricorderanno la partecipazione, nel 1861, dopo la nomina a senatore del nuovo Regno d'Italia, alla prima seduta del Parlamento; il suo intervento, nel 1864, alla votazione per il trasferimento della capitale da Torino a Firenze; l'accettazione, nel 1870, della cittadinanza romana, per dimostrare pubblicamente la propria convinzione della necessità della scomparsa del potere temporale della Chiesa.
Le opere giovanili di Manzoni nascono nel clima culturale milanese, dominato dalla presenza di Vincenzo Monti. Così è del Trionfo della libertà, composto dopo la pace di Luneville, nel 1801, e così è anche dell'epistola in versi l'Adda, del 1803. Più tardi, nei Sermoni (1804), Manzoni tenta i modi della poesia satirica, guardando al Parini come maestro. Il testo più maturo e signifìcativo dell'opera giovanile manzoniana è tuttavia il carme In morte di Carlo Imbonati (1805), che costituisce un documento assai eloquente della precoce e robusta maturità morale di Manzoni, della sua ricerca di un programma austero di vita.
La storia autentica della poesia manzoniana inizia però con gli Inni sacri, che testimoniano della conversione religiosa del loro autore. Dopo la conversione al cattolicesimo, Manzoni progetta una serie di dodici Inni sacri, dedicati ciascuno ad una festività della Chiesa: di essi ne porterà a termine solo cinque, i primi quattro fra il 1812 e il 1815 (La Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale, La Passione) e il quinto (La Pentecoste) tra il 1817 e il 1822. In questi Inni Manzoni non si occupa soltanto degli aspetti dogmatici e teologici del cristianesimo, ma soprattutto dei suoi aspetti morali e sociali, più direttamente vissuti dalla coscienza religiosa popolare.
Dopo la stagione degli Inni sacri, tra il 1815 e il 1822, si apre un altro lungo periodo di riflessione inferiore che porta ad un crudo pessimismo: la conquista di un " credo " religioso viene sottoposta ad un processo di discussione, mentre l'attenzione di Manzoni si apre ad una complessa visione delle ragioni dell'esistenza e si sforza di rintracciare nella storia i segni visibili di una presenza divina. In questo periodo di riflessione nascono le odi civili, e tra di esse il Marzo 1821, in cui Manzoni, celebrando l'unirsi delle forze piemontesi e lombarde contro l'oppressore austriaco (un'unione in cui egli scorge il segno della volontà di Dio), proclama il suo ideale unitario di patria, nel sogno di un'Italia " una d'arme, di lingua, d'altare ".
Più che in queste odi, tuttavia, è nelle tragedie che si può osservare l'ampliarsi della problematica manzoniana. Ciò che importa allo scrittore, nel suo teatro, è la rappresentazione di una drammatica tensione morale dei suoi personaggi: i quali, quanto più sono impegnati a combattere per un ideale generoso, tanto più appaiono poi travolti dalle leggi della forza e della violenza che dominano il mondo. È questa la situazione del Conte di Carmagnola (1820), ma soprattutto dell'Adelchi (1822), nella quale è rappresentato il momento conclusivo della guerra tra franchi e longobardi. Adelchi, figlio di Desiderio, re dei longobardi, è il personaggio-chiave della tragedia. Al fedele Anfrido confessa in un momento di smarrimento: "Il core mi comanda / alte e nobili cose; e la fortuna [il destino] / mi comanda ad inique ". Ed in ciò sta la sua personale vicenda drammatica e il problema morale che Manzoni vuoi rappresentare. La realtà si oppone al desiderio dell'uomo di operare nel giusto; ogni sua azione sfocia in una direzione opposta a quella voluta. Ed è proprio questa condizione assurda, ma tragica, in cui l'uomo viene a trovarsi, che determina quella scelta a non agire. Solo non agendo è possibile infatti non commettere il male: Adelchi, "trascinato" per una via che non ha potuto scegliere, germe " caduto in rio [cattivo] terreno / e balzato dal vento ", diviene così l'eroe romantico della non azione.
Nell'ambito di questi problemi si pone anche l'ode celebrativa scritta in occasione della morte di Napoleone Bonaparte, il Cinque maggio, del 1821. L'immagine di Napoleone pare diventare l'immagine simbolo di un uomo che, pur nell'aspirazione a portare nel mondo le idee per una vita più giusta, seminava l'Europa di stragi. Senonché, rispetto all'Adelchi, nel Cinque maggio i termini appaiono capovolti: il destino di Napoleone, svela in realtà l' "orma" di un preciso disegno provvidenziale di Dio, riassume simbolicamente il percorso stesso della storia, la quale, attraverso la sua tragica vicenda di sangue e di violenza, sfocia a giuste conquiste. E da questa concezione della storia, in cui la Provvidenza divina segna il suo cammino, nascerà il capolavoro manzoniano, I promessi sposi appunto, pubblicato una prima volta nel 1827 e, in edizione definitiva, nel 1840. La prima versione del romanzo s'intitolava Fermo e Lucia (1812) ed è molto diversa dalla seconda e definitiva edizione, pubblicata tra il 1840 e il '42. Vi è una certa differenza di contenuto (oltre che ovviamente di stile) persino tra la prima edizione del 1827 e la seconda: in quest'ultima la severità morale e religiosa è attenuata (ad es, le due figure di don Rodrigo e della monaca di Monza sono descritte con colori meno accesi).
Importanti saranno pure i suoi scritti sulla lingua. Attraverso una serie di testi (Sulla lingua italiana e Dell'unità della lingua e dei mezzi di diffonderla, ambedue del 1845; Lettera al marchese Casanova, del 1871), Manzoni elabora infatti una sua organica teoria linguistica, la quale trova il suo punto di riferimento costante nel principio che la lingua scritta deve accostarsi a quella parlata. La norma di ogni scelta linguistica non sta quindi in una conferma che venga da un uso letterario, ma semplicemente nella conferma del parlato. Su questa base teorica Manzoni discute il problema dell'unità linguistica italiana: essa, vista la diversificazione notevole della lingua parlata nelle varie regioni, non può essere raggiunta che attraverso l'uniformarsi delle singole parlate a quella di maggior prestigio, cioè alla fiorentina. Nel parlato fiorentino delle persone colte, Manzoni indica perciò la norma da seguire per l'unificazione linguistica italiana.

 
Nei Sepolcri la concezione materialistica e pessimistica dell'universo espressa nell'Ortis viene ribadita. Foscolo oppone alla forza cieca della natura la validità delle " illusioni" , guida e meta della civiltà, del cammino faticoso nel quale l'uomo si realizza come essere umano. Perciò, pur escludendo ogni realtà ultraterrena, il poeta dichiara "celeste" l'illusione della sopravvivenza dell'individuo virtuoso nell'affetto dei suoi cari e nel ricordo dei posteri : di tale illusione si nutre il culto dei sepolcri, nato insieme con la civiltà.Alimentando un sentimento eroico della vita, una rinnovata fede nella poesia, Foscolo celebra "le urne de' forti", di cui sono esempio i sepolcri dei grandi italiani nella chiesa di S.Croce a Firenze , come simbolo della memoria storica delle nazioni; testimonianza di un passato glorioso e , in tempi infelici, fonte di speranza in un riscatto futuro. Infine esalta la poesia : se il tempo cancella le sepolture degli eroi, la poesia ne rende il ricordo imperituro ,onorando con suprema giustizia e pietà i vincitori e gli sconfitti.

Il Carme può dividersi in quattro parti :

Esordio

VV 1-90: Sotto l'ombra dei cipressi e dentro le tombe, confortate dal pianto dei vivi, forse la morte è meno crudele? Praticamente , secondo il Foscolo, non cambia nulla . Per un morto, che sollievo sarà una tomba, una lapide che distingua le sue ossa dalle tante sparse dovunque? Purtroppo è vero , dice il poeta rivolgendosi a Pindemonte, l'uomo vuole avere quell'Illusione , pur sapendo con la ragione che la tomba non serve a niente ; col cuore ognuno vuole sperare di non morire completamente,ma di rimanere vivo nel ricordo, per quello che si è fatto durante la vita. 
E' un fatto divino questo scambio di affetto fra i vivi e i morti : la tomba servirà al vivo per continuare a dialogare col morto , servirà al morto per rimanere nel ricordo dei vivi . Per questo il vivo vivrà col morto e il morto col vivo, perché la terra raccoglierà ogni cadavere proteggendolo dalle tempeste e dai piedi del volgo .
Solamente chi non lascia amici ha poca gioia della tomba perché non può godere di questo rapporto affettivo ; chi non lascerà amici e parenti lascerà la sua polvere alle erbacce, dove nessuno andrà a pregare. Però una nuova legge (Editto di Saint Cloud, in Francia del 1804) voleva che i cimiteri fossero lontani dalle città e le tombe tutte uguali.Si viene a negare , perciò , quell'illusione di cui prima si parlava, e a negare del giusto compenso un uomo , come Parini , la cui memoria dovrebbe essere onorata dalla comunità , mentre i suoi resti saranno dispersi tra anonime tombe plebee.

Funzione civile dei sepolcri

VV 91-150: L'autore traccia una storia ideale dei culti sepolcrali , nati insieme con la civiltà le leggi e la religione, per difendere i cadaveri dalle belve e dalle tempeste.Alle usanze lugubri del Medioevo ( nelle chiese c'era puzza di cadaveri che erano lì sepolti e le loro figure facevano paura a chi pregava) egli oppone quella dei sepolcri antichi , immersi in uno scenario naturale florido ( c'erano profumo e dolci fontane e le lampade notturne e i parenti offrivano latte mentre parlavano con i loro morti) , usanza che rivive nei cimiteri-giardini inglesi dove le donne pregavano per far ritornare l'Ammiraglio Nelson che si fece la bara con l'albero della nave vinta (Battaglia di Trafalgar 1804, in cui vinse su Napoleone).
Nei paesi , come l'Italia , in cui non c'è amor patrio, ma solo viltà, i sepolcri non servono a niente perchè i vili possono considerarsi morti già da vivi. Il poeta spera, da morto, di lasciare sentimenti puri e un Carme che canti la libertà. Questa è una parte importante dei Sepolcri, perchè evidenzia lo scopo cruciale delle tombe : ispirano a grandi imprese e rendono santa la terra che accoglie le tombe degli uomini forti,

Le tombe dei grandi

VV 151-212: Il poeta , rivolgendosi a Pindemonte , parla del sepolcro di Santa Croce a Firenze in cui sono sepolti grandi uomini come Machiavelli che, con il Principe, fece vedere al popolo, la crudeltà di questi, con la scusa di dargli consigli ; sono sepolti anche Michelangelo ,che ideò la cupola di San Pietro, e Galileo . Continua dicendo che a Firenze , beata anche per il clima sereno e per i suoi fiumi, per i suoi colli e le valli piene di case e di uliveti , è legata anche la memoria di Dante e di Petrarca , che ne resero gloriosa la lingua . 
In questo Sepolcro si recava spesso Vittorio Alfieri, scrittore del '700. Egli era pieno d'ira per gli dei della Patria (che non era libera) e in silenzio cercava i luoghi più deserti, guardando il cielo, pieno di speranza; e, poichè niente del suo periodo lo calmava, si riposava qui. Adesso vive qui , dice Foscolo , con i grandi uomini; è seppellito, ma vive perchè è sempre vivo il suo ricordo per essere stato un uomo di grandi ideali patriottici.
Alle tombe di Firenze l'autore unisce idealmente quelle degli eroi della battaglia di Maratona , ove gli Ateniesi ebbero il coraggio di vincere i Persiani . Atene fece realizzare un sepolcro (Sepolcro di Maratona). Chi naviga il mare Egeo, vicino Maratona, vede ancora il ripetersi di quella famosa battaglia con elmi scintillanti nella notte.

La funzione del poeta vate

WW 213-295 Nell'ultima parte è svolto il tema della poesia eternatrice.Si rivolge ancora a Pindemonte che, da giovane, attraversando il mare greco , ha udito fatti antichi dei lidi dell'Ellesponto e del mare agitato che portava le armi di Achille al sepolcro di Aiace ; nè l'astuzia, nè i re, poterono conservare le armi coraggiose (difficoli da mantenere) e nè Ulisse perchè gli dei sotterranei provocarono l'agitazione del mare per cui le armi caddero dalla sua nave .L'episodio ha una duplice funzione : segna il passaggio da una remota età storica ad un'ancor più remota età leggendaria, al mondo dell'Iliade, e introduce il tema della virtù sfortunata che trova risarcimento nella poesia, la poesia (le Muse) eternatrice delle azioni umane. Foscolo si sente così chiamato a evocare gli eroi eternandoli con la poesia. I miti , che si susseguono, illustrano il tema e riassumono i motivi essenziali del carme : il sepolcro come legame affettivo tra vivi e defunti ( mito di Elettra e preghiera della ninfa a Giove ) ; i sepolcri come sacrario della patria (mito di Cassandra che guida i nipoti presso le tombe degli avi ) ; sepolcri come ispiratori della grande poesia (Omero , che alle tombe troiane si ispirerà per l'Iliade ).

 


L'epoca e l'ambiente 

-  la vita di leopardi si svolge nell'epoca della restaurazione e dei moti insurrezionali degli anni 20 e 30 dell'800, che è l'età dell'affermazione del liberismo 

- in sistema degli stati europei, dopo gli sconvolgimenti portati dalla rivoluzione francese e dal tentativo egemonico della Francia napoleonica, viene ridefinito nelle complesse trattative del congresso di Vienna 
- in Italia il principio di legittimità, ossia la restituzione di ciascun territorio alla dinastia cui 'legittimamente' appartiene , accentua la frammentazione della penisola 
- il panorama culturale offerto dall'Europa della restaurazione è variegato per la presenza di diverse correnti politiche e ideologiche , espressione di interessi socio-economici 
- in generale si può affermare che negli anni successivi al congresso di Vienna il connotato culturale dominante è la presa di distanza dall'illuminismo, per i suoi esiti rivoluzionari 
- nonostante  il percorso di emancipazione che leopardi arrivato alla soglia dei 18 anni, intraprende rispetto al padre, Recanati esercita comunque su di lui un forte condizionamento, tanto da coltivare in lui un disperato desiderio di uscirne 
- la reclusione a Recanati nella biblioteca allestita dal padre, gli permette di conoscere e amare la civiltà antica, però gli impedisce di avere una esperienza delle cose moderne 
- leopardi conosce il suo tempo attraverso Recanati, e il giudizio fortemente negativo che esprime sulla città natale finisce per riverberarsi su tutta l'epoca moderna e sulle sue espressioni storiche e culturali 
- Recanati si presenta come un punto di osservazione privilegiato, non della storia, ma dell'uomo e della sua condizione psicologica, esistenziale e morale 
-i contemporanei criticano leopardi per l'atteggiamento di freddezza tenuto nei confronti del nascente movimento risorgimentale  
- leopardi non esprime fiducia nel risorgimento 
- egli è convinto che l'ordine naturale dell'universo neghi la felicità dell'individuo, non può pensare che sia in potere dell'uomo realizzare la felicità dei popoli 
- l'ironia di Leopardi investe soprattutto la meschinità della politica contemporanea 

La formazione culturale  

- precettori torres e stanchini 
- conclusione degli studi scolastici del figlio, 1812 
- molti progressi da autodidatta, soprattutto nell'apprendimento delle lingue, antiche e moderne 
- impara da solo : greco, ebraico, francese, inglese, spagnolo 
- dedica sette anni ad uno studio matto e disperatissimo 
- grazie alla perfetta conoscenza del e del latino, leopardi traduce e commenta mosco, omero, Orazio, Virgilio, Ovidio 
- la svolta essenziale e letteraria che si attua a partire dal 1816 con il passaggio dalla erudizione al bello e successivamente dalle lettere alla filosofia è accompagnata da alcune scoperte che si rivelano fondamentali per l'evoluzione del suo pensiero e del suo apprendistato poetico: la filosofia dei lumi attraverso le opere di Montesquieu e Rousseau, la nuova poesia italiana del rinnovamento 'civile' e del classicismo illuminato 
- gode di un sincero apprezzamento da parte di Pietro Giordani conosciuto per via epistolare 
- l'amicizia con giordani gli permette di stabilire contatti con il mondo della cultura, della ricerca e dell'editoria fuori da Recanati 

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