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Silvia ricordi ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando la bellezza risplendeva
nei tuoi occhi luminosi e fuggitivi
e tu, contenta e pensierosa, varcavi
la soglia della giovinezza?
Le silenziose stanze
e le vie circostanti risuonavano
al tuo continuo canto,
quando, mentre eri intenta ai lavori femminili,
sedevi ed eri contenta
del tuo vago futuro,
che avevi in testa.
Era il profumato mese di maggio e tu eri solita
così trascorrere la tua giornata.
Io, talora, abbandonando
gli studi letterati e i miei quaderni scritti
sui quali si consumava la mia vita,
dal balcone della casa paterna
ascoltavo il tuo canto
e il rumore della tua mano veloce
che scorreva sul telaio.
Guardavo il cielo sereno,
le strade indorate dal sole
e vedevo di qua il sole e di la le montagne.
Nessuna parola potrebbe dire
quello che io ho provato dentro di me.
Che pensieri piacevoli,
che speranze, che sentimenti,
o Silvia mia?
Come ci sembravano allora,
la nostra vita il nostro destino.
Quando mi ricordo di quella speranza
così grade, un sentimento duro
e inconsolabile mi opprime
e a me ritorna il desiderio
a dolermi della mia infelicità.
O natura, o natura perché non dai
quello che hai promesso prima?
Perché di tanto inganni i figli tuoi?
Tu, o Silvia, prima che l'inverno inaridisse l'erba,
indebolita e vinta da un male nascosto,
morivi, o fragile creatura,
e, mentre le lodi per i tuoi neri capelli
o ai tuoi sguardi innamorati e verecondi
non ti rallegravano il cuore;
ne le tue amiche nei giorni festivi,
conversavano d'amore con te
tu non vedevi
il fiorire dei tuoi anni.
(come tu sei morta)
Così poco dopo anche la mia dolce speranza moriva:
il destino ha negato i miei anni
anche la giovinezza hai come
sei fuggita in fretta
cara compagna della mia giovane età,
mia speranza tanto rimpianta.
Questo è il mondo tanto sognato?
Questi sono i diletti, l'amore, le opere e gli eventi
di cui così a lungo ragionammo insieme?
Questo è il destino degli uomini?
Quando è apparsa la vera e cruda realtà
tu misera, sei scomparsa; e con la mano
mi indicavi da lontano
la fredda morte e una muta tomba.

Tema: “A Silvia” (à Selva/natura) è l’inizio di una nuova stagione poetica, tra il ’28 e il ’30. Questo canto, composto a Pisa nel 1828, è dedicato a una fanciulla che il poeta realmente conobbe, forse Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta di tisi nel 1818.
Ma non è funebre commemorazione, non è neppure canzone per Silvia, in onore di lei: è una confessione del poeta. Nasce questo lungo e commosso colloquio con Silvia, la cui morte prematura diventa il simbolo delle speranze stesse del poeta, diminuite all’apparire della terribile verità della condizione umana. Tutto il canto è costruito sulle esperienze parallele della giovinezza di Silvia, precocemente troncata dalla morte, e delle illusioni del poeta. L’immagine della donna si smorza nel mito della speranza.
Silvia è rappresentata nel fiorire della sua giovinezza in primavera, invece la sua morte in inverno. Il rapporto con la vita della fanciulla con il valore metaforico della stagione della giovinezza e di quella della morte è che nella prima rispecchia il tempo di speranze e di gioie, invece nella seconda le delusioni e la morte. In questa canzone la Natura manifesta un duplice aspetto, ora ispirando serenità e dolcezza, ora vista come causa principale dell’infelicità umana; matrigna crudele e indifferente che mette al mondo i suoi figli senza che questi lo vogliano, inseriti in un meccanismo di vita e di morte.

Forma metrica: Canzone libera (costituisce il primo campione della cosiddetta ‘canzone libera’ leopardiana). Risulta di sei strofe a lunghezza varia. Settenari e endecasillabi si succedono secondo le esigenze dell’ispirazione e la rima non ha schema prestabilito. L’unico elemento di regolarità è dato dal ripetersi del settenario alla fine di ogni strofa. E' la prima canzone di questo tipo, che segna l'abbandono degli schemi tradizionali con stanze omometriche.




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