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INTRODUZIONE

I Promessi Sposi I "Promessi Sposi" sono il primo grande romanzo italiano di intonazione realistica. Precisiamo subito, però, che il "realismo" manzoniano si inquadra in una concezione idealistica della vita: esso nasce dall'esigenza dell'Autore di aderire con scrupolo alla storia degli uomini, ma è in funzione di un riscatto dell'umanità destinato a compiersi nell'aldilà.
Il Manzoni nell'introduzione del romanzo racconta di aver trovato un manoscritto anonimo; questi dice che mentre i grandi storici parlano solamente delle imprese di grandi uomini lui vuole parlare delle imprese di persone del popolo. Il Manzoni dice che la storia raccontata dall'anonimo gli piacque per cui vuole rifarla in una lingua più nuova. Manzoni fa finta che i Promessi Sposi raccontino una vicenda vera, raccontata da un anonimo e da lui tradotta in una lingua moderna. Il Manzoni dice tutte queste cose perchè vuole far vedere al lettore che la sua storia è vera e non è una semplice invenzione. Già nell'introduzione, dietro il pensiero dell'anonimo si nota la concezione della storia per il Manzoni, cioè la storia non è fatta solo dai grandi personaggi ma anche dal popolo. La storia secondo Manzoni è fatta di bene e di male, del peccato e della salvezza. A proposito di ciò, è molto importante l'idea cristiana: cioè la storia, per Manzoni, è importante perchè nella storia e nella vita di tutti gli uomini, egli vede sempre la provvidenza di Dio, quindi è una visione religiosa, provvidenziale, perchè Manzoni nel romanzo vuole parlare soprattutto del bene e del male. La vita è essenzialmente "dolore", l'egoismo non paga, la fede in una superiore Giustizia resta l'unica risorsa dell'uomo per fargli accettare la vita come dolore e il Bene come un valore. Si spiega così nel romanzo la costante presenza della Provvidenza, che non è un personaggio a sé stante come i miti delle divinità pagane nelle opere classiche, ma è indistintamente, impalpabilmente dappertutto: è l'anima stessa della storia. D'altra parte la storia, al di là delle apparenze che ce la mostrano assai spesso in contrasto con la Legge di Dio, non può che tendere verso il fine supremo prescritto da Dio.Quindi i veri protagonisti del romanzo sono la Provvidenza e la Storia.
La novità più sorprendente del romanzo è data dalla presenza dei personaggi tratti dal popolo, dei cosiddetti "umili", che per la prima volta compaiono come protagonisti di un'opera letteraria. A questo mondo di umili il Manzoni aderisce con intima cordialità e profonda solidarietà. E se pure è vero che egli tratti quella povera gente con affetto e con simpatia ma pur sempre con un certo compiaciuto divertimento nel sottolinearne l'ingenuità od anche l'astuzia proverbialmente contadinesca, è senz'altro da scartare l'ipotesi di un atteggiamento volutamente malizioso ed è piuttosto da riscontrare in ciò la registrazione fedele di un rapporto genuino, non farisaico, fra l'Autore, aristocratico intellettuale, e le sue umili creature.
I personaggi dove meglio vediamo la religione cristiana sono: Fra Cristoforo Borromeo; dobbiamo ancora ricordare la famosa conversione dell'Innominato, in cui vediamo la presenza di Dio nel cuore di un uomo; dobbiamo ancora ricordare Don Rodrigo soprattutto nelle pagine finali quando s'ammala di peste e grazie alla sofferenza si salva l'anima. (provvida sventura). Dobbiamo anche ricordare la famosa Monaca di Monza Gertrude, poichè il Manzoni con dolore segue la sua sventurata vicenda. Nella pagina finale del romanzo, Renzo e Lucia, i quali cercano di capire il vero significato di tutto ciò che è successo a loro, capiscono che anche se nella vita si soffre, basta aver fiducia in Dio e così anche la sofferenza ci aiuta a diventare migliori (provvida sventura).
Abbiamo tre stesure. Il romanzo, la prima volta si chiamò "Fermo e Lucia" e presenta un maggiore pessimismo; poi con il titolo "Promessi Sposi" (II e III) il romanzo diventa più sereno ed equilibrato. Il carattere principale del romanzo è che le persone buone vengono sempre perseguitate ma alla fine il bene vincerà. I Promessi Sposi sono un romanzo romantico per l'amore della verità storica, per la grande religiosità e per l'amore di Manzoni verso gli umili. Il romanzo è un misto di storia e di invenzione in cui il Manzoni racconta un fatto privato e fatti più generali; questa unione fra la gente e la piccola storia rappresenta una novità.
Si parla di un filatore di seta, Renzo, e di una popolana, Lucia, che non si può sposare perchè un signorotto prepotente, Don Rodrigo, si è invaghito di lei; ma alla fine i due si sposano dopo molte vicende dolorose. Oltre a questo fatto privato si parla pure della Lombardia dominata dagli spagnoli, della Spagna e di altre regioni: si parla pure della carestia a Milano e della peste. Ha una grande importanza nei Promessi Sposi la folla che viene considerata la vera protagonista del romanzo; ma protagonista viene pure considerata la provvidenza: appunto per questo la differenza fra i Promessi Sposi e tutte le altre opere è che il Manzoni nei Promessi Sposi vede sempre la provvidenza nella storia e negli uomini.
Una grande importanza del romanzo è l'umorismo, che serve al Manzoni per dare un carattere medio giusto al suo racconto; cioè quando un fatto sta per diventare troppo tragico, il Manzoni con l'ironia e l'umorismo lo riporta a una certa normalità, facendo perdere a quel fatto l'eccessiva tragicità; per esempio: quando nel castello dell'Innominato abbiamo la figura di Lucia sofferente c'è anche la figura un po' comica della vecchia, la quale serve a rendere meno drammatica tutta la scena. Si ricordi il suo scritto "Della lingua italiana". Manzoni, mentre si preparava a scrivere, cercava una lingua popolare e nello stesso tempo letteraria; decide di usare la lingua fiorentina parlata dalle persone colte, poichè in Italia solo Firenze, dice Manzoni, ha una lingua nazionale, perchè vi sono poche parole straniere ed è già stata usata dai grandi trecentisti ( Dante, Petrarca, Boccaccio).
Il romanzo, quindi, è romantico anche per la lingua che è popolare pure se in modo moderato. A proposito della lingua, non ci sono espressioni parlate come ci saranno, invece, nel Verga. Un'altra differenza dal Verga e dai "veristi" è questa: tutti i personaggi parlano allo stesso modo di come parlerebbe il Manzoni, cioè il Manzoni non fa parlare i personaggi come parlerebbero veramente nella realtà, non si abbassa lui ai personaggi come farà Verga ed i veristi, ma li innalza a lui; per esempio, nell'addio ai monti le espressioni non sono certo quelle di due popolani. Bisogna anche dire che c'è ancora nel Manzoni un certo paternalismo, cioè lui tratta gli uomini come un padre tratta i figli, poichè crede che non sanno decidere da soli e hanno sempre bisogno di qualcuno, mentre nel Verga i personaggi sono più liberi.

PERIODO STORICO
Il Seicento è il secolo della preponderanza spagnola in Europa e particolarmente in Italia, dove, tranne qualche moto popolare suggerito dal disagio economico più che da precise idealità politiche (Masaniello a Napoli, Giuseppe D'Alessi a Palermo) l'atmosfera è di completa sottomissione alla Spagna, la cui influenza si fa sentire anche in quegli Stati che non sono soggetti alla sua autorità.
Solo da parte del Ducato di Savoia di profila una politica di maggiore indipendenza e talvolta di opposizione.
Gli avvenimenti europei più notevoli nella prima metà del Seicento sono la Guerra dei Trent'anni e la Rivoluzione inglese.
La Guerra dei Trent'anni è una nuova manifestazione delle lotte religiose, in cui, come sempre, si inseriscono precisi moventi politici. Nel suo corso (1618-1648), essa vede schierati gli uni contro gli altri i principali Stati dell'Europa. La conclude la pace di Westfalia, che segna il tramonto dell'egemonia degli Asburgo, il trionfo della Francia, il riconoscimento definitivo dell'indipendenza dell'Olanda e, sul piano religioso, la conferma dei diritti delle confessioni extracattoliche.
Ormai la Francia, anche per merito dei suoi grandi ministri (il cardinale di Richelieu e il cardinale Mazzarino), inizia la sua ascesa al ruolo di grande potenza, contrapponendosi in tal modo alla preponderanza spagnola.
In Inghilterra, intanto, a conclusione della guerra civile provocata dalla limitazione dei diritti del Parlamento da parte di Carlo I Stuart, nel 1648 la monarchia è deposta e l'anno successivo il re viene decapitato, mentre il potere è assunto da Oliviero Cromwell col titolo di Lord Protector.
Sotto il Cromwell si ha l'Atto di navigazione (1651), che costituisce la solenne affermazione dell'egemonia dell'Inghilterra sui mari.
Alla morte del Cromwell (1658) cui succede per breve tempo il figlio Riccardo, il popolo inglese restaura nel 1660 la monarchia con Carlo II Stuart. Morto quest'ultimo (1685) sale al trono Giacomo II, sotto il quale si ha la seconda rivoluzione che vede l'avvento al potere di Guglielmo III d'Orange, marito di Maria, figlia di Giacomo II.
In questa occasione, il Parlamento inglese fa giurare ai nuovi sovrani la Dichiarazione dei Diritti, che riconferma le tradizionali prerogative delle due Camere e dà all'Inghilterra la fisionomia di monarchia costituzionale che manterrà in futuro.
Grandeggia, nella seconda metà del Seicento, la figura del re di Francia Luigi XIV (1643-1715) che durante i settantadue anni del suo regno assicura al suo Paese un incontestabile primato in Europa. Sotto di lui l'assolutismo monarchico raggiunge il suo culmine.
Per quanto riguarda l'Italia il trattato di Cateau-Cambrèsis assegnò alla Spagna il dominio su quasi tutta l'Italia, che fu il peggiore fra quanti essa dovette sopportare: scomparve ogni sentimento di indipendenza e di libertà politica; il fiscalismo avvilì i sudditi e impoverì il paese; industria e commercio decaddero, le terre furono abbandonate; la popolazione diminuì paurosamente.
Ma non meno che nel campo materiale, quel triste governo influì su quello morale: la servitù insegnò a mentire ed adulare, la prepotenza dei dominatori fu imitata dai signorotti italiani che servivano vergognosamente i potenti e opprimevano i fratelli che stavano in basso.
Le leggi c'erano ma non c'era chi le facesse rispettare, sicchè regnava l'arbitrio e la vendetta privata. Al posto del sentimento religioso dominava l'ipocrisia. Ogni ideale era scomparso.
Le pagine dei promessi Sposi del Manzoni sono la più luminosa testimonianza di questo periodo storico.

LA STRUTTURA DE «I PROMESSI SPOSI»
Prologo
Introduzione.
Scambio della promessa di matrimonio fra Renzo e Lucia (parte inferibile dal testo all’inizio del III capitolo).
Don Rodrigo scommette con don Attilio che farà sua Lucia (capitolo III: don Rodrigo-Lucia-Attilio nel racconto di Lucia).
Orientamento
Descrizione del primo capitolo.
Azione complicante
Intimidazione rivolta dai bravi a don Abbondio affinché non celebri il matrimonio.
Peripezie
Tentativo di soluzione di Renzo => Azzecca-garbugli (capitolo III).
Tentativo di soluzione di padre Cristoforo => don Rodrigo (capitoli V e VI).
Tentativo di soluzione di Renzo (e Lucia) => matrimonio segreto (capitolo VIII).
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Fallimento dei tentativi e divisione degli amanti (capitolo VIII-IX)
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Renzo a Milano (capitoli dall’XI al XVI)
Lucia a Monza (capitoli IX-X...)
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Renzo viene scambiato per un agitatore della rivolta e arrestato (capitolo XV)
Lucia è rapita dall’Innominato (capitolo XX)
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Renzo riesce a liberarsi (capitolo XVI)
Le sue preghiere «convertono» l’Innominato (capitolo XXI)
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Renzo raggiunge l’Adda e il Bergamasco (capitolo XVI)
Lucia è liberata e ospite di donna Prassede e don Ferrante (capitolo XXV)
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Scoppia l’epidemia di peste (capitoli XXXI e seguenti)
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Renzo si ammala (capitolo XXXIII)
Lucia si ammala
Don Rodrigo si ammala (capitolo XXXIII)

Scioglimento
Renzo, guarito, si reca a Milano (capitolo XXXIV) dove ritrova Lucia (capitolo XXXVI).
Renzo incontra don Rodrigo agonizzante e lo perdona (capitolo XXXV).
Fra Cristoforo scioglie il voto di castità pronunciato da Lucia (capitolo XXXVI).
Renzo e Lucia si preparano al matrimonio (capitoli XXXVII e XXXVIII).
Coda
Commiato manzoniano ai suoi lettori: captatio benevolentiae10 relativamente alla «storia» narrata (capitolo XXXVIII).
Vicende di Renzo e Lucia sposi: i figli numerosi; i giudizi sulla bellezza di Lucia (capitolo XXXVIII).

REFERENTE STORICO
Realtà politica, sociale ed economica della Lombardia soggetta al domino spagnolo nella prima metà del XVII secolo.

REFERENTE D’INVENZIONE
Renzo (Lorenzo Tramaglino), filatore di seta della zona di Lecco. Egli vuole sposare Lucia (Mondella), filatrice di seta sua compaesana, ma viene ostacolato da don Rodrigo, signorotto del luogo.

MESSAGGIO
1) Denotazione
Renzo e Lucia superano ogni difficoltà e si sposano.
2) Connotazione
L’uomo, anche di fronte alla situazione più disperata, non deve mai perdere la sua fiducia in Dio.
Dio, anche quando sembra indifferente e distaccato, provvede in realtà al riscatto e alla salvezza dell’uomo. Il dolore, poi, non è fine a se stesso, ma, nel progetto divino, prepara all’uomo una gioia più grande .

ROMANZO STORICO:
Genere letterario misto di storia ed invenzione; può essere considerato come un prodotto squisitamente romantico proprio per la ricostruzione storica in modi fantastici e sentimentali.
L’interesse per il romanzo storico era stato suscitato in Manzoni dalla lettura del romanzo «Ivanhoe» dello scozzese Walter Scott (1771-1832).
1) Storia
Manzoni raccolse con lo scrupolo di un vero «storico» tutti i particolari dell’età in cui doveva svolgersi l’azione: libri di storia (del Ripamonti, Tadino, Rivola, Pietro Verri), opere cavalleresche (del Birago, Olevano, Barzagni), mappe dettagliate della Milano seicentesca; raccoglie nomi, soprannomi, calendario, costumi, grida.
2) Invenzione
E’ la storia dei due promessi. Manzoni finge di averla trovata nel manoscritto di un autore anonimo del ‘600.

PERSONAGGI STORICI RINTRACCIABILI NEL ROMANZO 1) Il cardinale Federigo Borromeo;
2) l’Innominato, in cui rivive Bernardino Visconti;
3) Gertrude, ovvero Marianna de Leyda;
4) padre Cristoforo, al quale corrisponde, in parte, Lodovico Picenardi di Cremona;
5) gli uomini di governo.

FATTI STORICI RIEVOCATI DAL ROMANZO 
1) La carestia del 1628;
2) la sommossa milanese del novembre 1628;
3) la conversione di Bernardino Visconti;
4) il passaggio dell’esercito imperiale (Lanzichenecchi) per recarsi all’assedio di Mantova;
5) la guerra di successione per Mantova e il Monferrato;
6) la peste del 1630 a Milano e in Italia.

CODICE E REGISTRO Nel primo ‘800 gli scrittori italiani, seguendo la nostra tradizione letteraria, adottavano ancora un registro di tipo aulico/formale/accademico, anche per la costante riproposta di registri stilistici e lessicali ormai vecchi di secoli, per quanto prestigiosi. Manzoni, invece, avvertì la necessità di una lingua italiana unitaria, di una lingua cioè comprensibile alla gran parte degli italiani. Non scelse però il dialetto lombardo (rifiutò anche gli idiotismi lombardi del manoscritto) bensì il fiorentino parlato dalle persone colte, «il fiorentino ben parlato», perché esso forniva garanzie di prestigio, di espressione e di comprensione in larghi strati della popolazione.
La riforma manzoniana del linguaggio influenzò tutti gli autori italiani successivi, anche se possono essere considerati come eccezioni il D’Annunzio, che adotta un linguaggio «archeologico» fatto di citazioni e reminiscenze letterarie, e il Carducci.
Il suo linguaggio è dunque vivo e colorito, perché ricavato dalla comunicazione quotidiana dei parlanti. Stilisticamente sono frequenti l’uso dell’ironia e delle similitudini a fini espressivi e chiarificativi. Vediamone alcuni esempi tratti dal primo capitolo:
a) «i soldati spagnoli... insegnavan la modestia alle fanciulle... accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, ...non mancavan mai di diradar l’uve...»;
b) su don Abbondio: «non avesse anche lui un po’ di fiele in corpo... tanti bocconi amari inghiottiti in silenzio...; (aiutare un oppresso) ... era per lui un comprarsi gl’impicci a contanti, un voler raddrizzar le gambe ai cani.»
c) «(Perpetua era nubile) per non aver mai trovato un cane che la volesse...»; dice: «il nostro arcivescovo è un uomo di polso... quando può far stare a dovere uno di quei prepotenti, ci gongola...; le schioppettate non si danno mica via come confetti: e poi se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano... a chi sa mostrare i denti gli si porta rispetto...»;
d) don Rodrigo «... è tempo di dir codeste baggianate?»
La scelta di Manzoni per una lingua popolare riflette la sua predilezione, sociale e morale, per i deboli, per gli oppressi, per i poveri: egli porta in primo piano nel suo romanzo tutti coloro che (come Renzo, Lucia, Agnese, Perpetua, Tonio, ecc.) erano sempre stati dimenticati dalla letteratura precedente, attenta solo ai grandi avvenimenti e ai personaggi famosi.
L’aggettivazione usata da Manzoni non è semplicemente esornativa, ma esprime un giudizio morale. Vediamo alcuni esempi dal capitolo X e XIII:
a) su Egidio: «giovane scellerato di professione»;
b) su Gertrude: «la sventurata rispose»;
c) sul vecchio della sommossa: «vecchio mal vissuto... due occhi affossati e infocati... compiacenza diabolica... canizie vituperosa».
Anche la metafora non è esornativa, ma esplicativa dei sentimenti dei personaggi; gli esempi sono tratti dal primo capitolo e dal VI:
a) «(don Abbondio) era un animale senza artigli e senza zanne... un vaso di terracotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro...»;
b) «Questo nome (don Rodrigo) fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte del temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti, e accresce il terrore»;
c) padre Cristoforo, offeso da don Rodrigo: «abbassò il capo, e rimase immobile, come, al cader del vento, nel forte della burrasca, un albero agitato ricompone naturalmente i suoi rami, e riceve la grandine come il cielo la manda.»

IL MODELLO COMUNICATIVO Il narratore (cioè il Manzoni, autore virtuale) si rivolge direttamente in prima persona ad un narratario (cioè il lettore virtuale presupposto dal Manzoni). Infatti si legge nel primo capitolo: «... si troverà chi duri la fatica di leggerlo... I miei venticinque lettori». Tale narratario è di media cultura, benpensante e moderato.
Quindi il Manzoni gli si rivolge nel fiorentino parlato dalle persone colte, gli tace la canzonaccia dei bravi (capitolo I), i discorsi strani di Gertrude (capitolo IX), i crimini dell’Innominato (capitolo XXI), i piani delittuosi di don Rodrigo e del Griso (capitolo VII) e disapprova l’entusiasmo di Renzo per i tumulti di Milano (capitolo XI).
Ci sono diversi modi del narratore di rapportarsi con la materia trattata:
1) mimesi (dialoghi, monologhi, soliloqui dei personaggi): il narratore è assente. Ad esempio: dialogo fra don Abbondio e Perpetua (capitolo I); dialogo fra don Abbondio e Renzo (capitolo II); soliloquio di don Abbondio (inizio capitolo VIII). Il procedimento mimetico usato dal Manzoni, soprattutto nelle vicende d’invenzione, è sottolineato dal registro linguistico che appare di tipo semplice/basso/realistico, come quello di Renzo e Perpetua, più accademico quello di don Abbondio o di Azzecca-garbugli.
2) Diegesi (descrizioni, commenti, riassunti giudizi, resoconti di ciò che i personaggi non hanno né detto né sentito): il narratore si manifesta come la «voce fuori campo» del cinema. Ad esempio: la descrizione del lago di Como (capitolo I); l’aspetto dei bravi (capitolo I); la citazione delle grida (capitolo I); l’abito di Lucia (capitolo II); i gesti e i pensieri di Renzo mentre si reca da Azzecca-garbugli (capitolo III). Il procedimento diegetico è quello prevalente nel romanzo ed esprime tutto quello che non può essere detto col semplice dialogo fra i personaggi.
3) Discorso trasposto (nel quale la citazione è riferita con parole che non sono esattamente quelle pronunciate dai personaggi): il narratore si nasconde. Ad esempio: «Addio, monti sorgenti dalle acque... di tal genere, se son tali appunto erano i pensieri di Lucia...» (capitolo VIII).
Ogni narratore, inoltre, delinea i fatti con una prospettiva particolare, con un particolare punto di vista. A seconda della prospettiva il racconto, o la narrazione, può essere:
1) a focalizzazione interna (quando il narratore sa, vede, pensa attraverso uno, interna fissa, o più personaggi, interna variabile o multipla): nei Promessi sposi ricorre di rado. Ad esempio: dopo che i bravi, vestisti da mendicanti, sono passati nella casa di Agnese: «... che razza d’uomini fossero, non si sarebbe potuto dire facilmente; ma non si poteva credere neppure che fossero quegli onesti viandanti che volevano parere» (capitolo VII Manzoni limita la sua autorità riferendo solo ciò che i personaggi percepiscono o percepirebbero); «Lucia lo vide e rabbrividì; scese con l’occhio giù giù per la china, fino al suo paesello, guardò fisso all’estremità, scoprì la sua casetta... Addio monti...» (sentimenti e pensieri sono di Lucia, il registro colto del discorso è, invece, del narratore);
2) a focalizzazione esterna (quando il narratore ne sa meno dei personaggi e racconta «dall’esterno» i loro comportamenti): nei Promessi sposi non ricorre mai;
3) a focalizzazione zero o del «narratore onnisciente» (quando il narratore sa, o racconta, più di quanto sappiano e vedano, o possano sapere, i personaggi, permettendosi anche incursioni nella loro mente e psicologia). E’ la forma di racconto prevalente nei Promessi sposi, tipica del resto i tutto il romanzo tradizionale. Alcuni esempi in cui noi troviamo il narratore onnisciente sono: «quel ramo del lago di Como... Per una di quelle stradicciole tornava bel bello...» (inizio del primo capitolo); il narratore entra perfino nella mente di personaggi come Gertrude, esprimendone le inquietudini interiori (capitoli IX e X), come l’Innominato, riferendoci i suoi pensieri (capitolo XX), o quelli di don Abbondio alla vista dei bravi (primo capitolo).

IL TEMPO DELLA NARRAZIONE
Per analizzare un racconto dal punto di vista del tempo occorre distinguere tra fabula e intreccio.
FABULA: comprende gli avvenimenti, i personaggi, gli ambienti del racconto: è la storia che viene raccontata; si può divider in sequenze ordinate secondo la successione logico-temporale.
INTRECCIO: sono gli enunciati narrativi tramite cui si comunica il contenuto della narrazione: è il discorso utilizzato dall’autore per narrare la storia.
Quando si ha discordanza fra l’ordine dell’esposizione degli eventi nell’intreccio, da una parte, e nella fabula, dall’altra, si parla di anacronia, che può presentarsi come:
1) prolessi, quando si anticipa un evento successivo;
2) analessi, quando vi sono delle retrospezioni, cioè dei flashback.
Nei Promessi sposi l’esposizione è prevalentemente lineare, infatti gli eventi sono narrati secondo la progressione naturale del tempo; non abbiamo prolessi, ma talora analessi: come nel flashback sulla vita passata di padre Cristoforo o nel flashback sulla vita passata di Gertrude.

IL TEMPO DELLA STORIA (TS) Inizio il 7 Nov. 1628:
è prossimo il tempo dell’Avvento, durante il quale nessun matrimonio si celebra, per cui don Abbondio temporeggia. Tra il 7 e l’11 Novembre si collocano i capitoli I-VIII.
11 Novembre:
scade la scommessa fra don Rodrigo e Attilio. Il giorno 11 Lucia riceve ospitalità a Monza (capitoli XI-XIV). Due giorni dopo Renzo arriva a Bergamo (capitoli XV-XVIII).
Dopo un mese circa:
Lucia viene rapita (la vicenda dura 24 ore). La protagonista viene condotta al suo paese (capitoli XX-XXIV).
Qualche giorno dopo:
Lucia è ospitata da donna Prassede in una villa e poi a Milano (capitolo XXVII).
Dic. 1628-Autunno 1629:
la situazione non cambia: Renzo a Bergamo, Lucia a Milano.
Autunno 1629-Ago. 1630:
dopo la carestia, arriva la peste.
Agosto 1630:
Renzo lascia Bergamo, sosta un giorno nel suo paese, quindi si reca a Milano: nel lazzeretto rivede Lucia.
Ottobre 1630:
Lucia raggiunge Renzo al paese. Si sposano.
IL TEMPO DEL DISCORSO, DEL RACCONTO (TR) Capitoli 1-17: 7 giorni;
capitoli 18-19: alcune settimane;
capitoli 20-24: due giorni;
capitoli 25-26: lieve accelerazione;
capitoli 27-32: due anni (dal Novembre 1628 all’Agosto 1630);
capitoli 33-38: ritmo lento fino alla lieve accelerazione della conclusione.
Le forme temporali utilizzate dal narratore possono essere così elencate:
1) la pausa (o digressione), in cui il tempo della fabula è nullo (è come se la progressione del racconto si fermasse: TS=0): qui il narratore fissa l’universo dei valori, commentando gli avvenimenti con massime di carattere religioso e morale, con valutazioni politiche o storiche. Qualche esempio sono: «E’ una delle facoltà singolari e incomunicabili della religione cristiana, il poter indirizzare e consolare chiunque, in qualsivoglia congiuntura, a qualsivoglia termine, ricorra ad essa» (capitolo X); «Era (la tortura) uno di que’ rimedi eccessivi e inefficaci dei quali, a quel tempo... si faceva tanto scialacquo» (capitolo XXXIV); «Ne’ tumulti popolari c’è sempre un certo numero di uomini che, o per riscaldamento di passione..., fanno di tutto per ispinger le cose al peggio...» (capitolo XIII); e «In un paese e in un’epoca vicina (Francia 1789)... si ricorse... a simili espedienti e ciò principalmente perché la gran massa popolare poté far prevalere a lungo il suo giudizio e forzare la mano a quelli che facevan la legge.»;
2) la narrazione rallentata (TR maggiore di TS): quando l’autore indaga per intere pagine una sensazione o un pensiero;
3) la scena dialogata, in cui il tempo dell’intreccio e quello della fabula coincidono (TR=TS), si ha, ad esempio nei dialoghi fra don Abbondio e Perpetua, in quello fra padre Cristoforo e don Rodrigo, fra l’Innominato e Lucia, eccetera;
4) il sommario, in cui il tempo dell’intreccio è più breve del tempo della fabula (TR minore di TS), quando il Griso fa la relazione a don Rodrigo sulla notte degli imbrogli (capitolo XI), o nel racconto del Manzoni sull’Innominato (capitolo XXI), o sul ravvedimento di Gertrude (capitolo XXIX) e, anche, nell’esposizione delle parti storiche;
5) l’ellissi, in cui, invece, il tempo dell’intreccio è nullo (TR=0), vengono infatti omessi dal discorso fatti avvenuti nel tempo ma che non interessano la narrazione. Ad esempio: su padre Cristoforo, «non è nostro disegno far la storia della sua vita claustrale» (capitolo XIV); o, su Gertrude, «i suoi discorsi divennero a poco a poco così strani che, invece di riferirli...» (capitolo IX); e su Renzo «noi riferiremo solo alcune delle parole che mandò fuori, in quella sciagurata sera» (capitolo XIV).

LO SPAZIO DELLA STORIA, DELLA FABULA Capitoli 1-8:
villaggio sul ramo orientale del lago di Como (lago di Lecco), il nome non è citato: potrebbe essere Olate o Acquate;

capitolo 5:
a Lecco da Azzecca-garbugli;
capitolo 9:
Lucia a Monza;
capitolo 11:
Renzo a Milano;
capitolo 17:
Renzo a Bergamo dopo il tumulto milanese;
capitolo 27:
anche Lucia è a Milano, dopo il rapimento, ospite di donna Prassede: ecco che ci si avvia al lieto fine, col ricongiungimento nel paese natio;
capitolo 38:
dopo il matrimonio i tre tornano nel Bergamasco e, anche per critiche alla bellezza di Lucia, Renzo acquista un filatoio e si trasferisce definitivamente alle «porte di Bergamo».

LO SPAZIO DEL DISCORSO, DELL’INTRECCIO Il narratore, nella descrizione dei luoghi, manifesta esigenze di realismo, gusto documentario, interesse per la storia urbanistica. Ad esempio, su Renzo a Milano: «Quando Renzo entrò per quella porta, la strada di fuori non andava diritta che per tutta la lunghezza del lazzaretto... La porta consisteva in due pilastri...» (capitolo XI); o «Lì c’era una colonna, con sopra una croce, detta di S. Dionigi... La strada che Renzo aveva preso andava... al canale detto il Naviglio.»
Il riferimento, poi, alle differenze tra la Milano del ‘600 e quella presente al Manzoni, mostra un tentativo costante di mantenere vivo il contatto con il narratario (funzione fatica e referenziale).
Prendendo spunto dalle funzioni linguistiche secondo lo schema di Jakobson, infatti, possiamo rintracciare nella narrazione una funzione narrativa esercitata dal narratore, una funzione fatica (di contatto fra narratore e narratario), una funzione meta-narrativa o «di regia» (quando il narratore mette in evidenza l’organizzazione interna del suo racconto, ad esempio nel capitolo II) e una funzione referenziale (nelle descrizioni); occorre osservare che nella narrazione la funzione conativa o persuasiva (quando il narratore vuole influenzare il lettore) può assumere anche l’aspetto di funzione ideologica quando il narratore commenta esprimendo valutazioni personali e, allo stesso modo, la funzione emotiva o espressiva può divenire funzione testimoniale, quando il narratore fa riferimento a se stesso come testimone di ciò che racconta o fa riferimento a una fonte.

Alessandro Manzoni (Milano 1785-1873).
Illuminista (fiducia nella ragione), anticlericale e antiaustriaco in gioventù.
Dopo il 1805 entra in contatto, in Francia, con gli scrittori romantici (attenzione ai sentimenti e all’interiorità della persona, rifiuto del classicismo).
Nel 1810 si converte al cattolicesimo.
Convinto assertore della funzione della Chiesa in campo spirituale (neoguelfo), è contrario al potere temporale dei papi e all’esistenza dello Stato Pontificio, vuole Roma capitale d’Italia (cattolico liberale).
Dimostra sempre interesse profondo per le classi più deboli e oppresse, tuttavia condanna con uno scritto i metodi violen ti della Rivoluzione francese del 1789.
- Ha fiducia nella ragione e nei sentimenti dell’uomo.
- E’ cristiano e cattolico, crede nella Provvidenza divina.
- Crede la conversione dell’uomo a Dio sempre possibile.
- E’ sensibile al dramma degli umili, dei poveri, degli oppressi, dei diseredati.
- Ha una visione positiva della funzione storica della Chiesa cattolica.
- E’ critico verso il malgoverno, lo sfruttamento, l’ingiustizia, la tortura.
- Deplora ogni rivoluzione violenta, anche se legittima - Rifiuta la demagogia dei politici.
Manzoni si rivolge ad un lettore di media cultura, benpensante e moderato.

LA GIUSTIZIA IN MANZONI
Sin dalle prime pagine de "I promessi sposi", il Manzoni ci presenta una società violenta, dove le questioni (come dice lo stesso don Abbondio, durante il colloquio con Renzo) non si discutono in termini di torto o di ragione, ma in termini di forza. I principali responsabili di questa drammatica situazione, sono, sempre secondo l'Autore, i vari signori e signorotti locali, i quali, disponendo di un'elevata influenza sulle istituzioni giudiziarie e protetti da piccoli eserciti personali di bravi, eludono con facilità le gride ( leggi ) per far valere il proprio potere d'oppressione sulla popolazione. Il clima d'ingiustizia e di violenza è quindi determinato dall'ancora forte potere feudale, personificato nella figura di don Rodrigo, e dalla totale inefficacia dell'apparato giudiziario spagnolo, la cui organizzazione burocratica, lenta e macchinosa, non riesce a garantire ai cittadini la protezione necessaria. 
Così, l'unica "giustizia" rispettata è quella di don Rodrigo e di quelli che, come lui, dispongono della violenza come strumento di dominio. Ma non basta. Anche gli intellettuali, uomini di chiesa come no, sono asserviti alla causa del potere, e sono costretti ad accettarne le logiche di sfruttamento. Don Abbondio, l'Azzecca-garbugli, uomini comuni, persone di per sé innocue, lontane dal sangue e dalla violenza, divengono, insieme alla stessa cultura che possiedono, le vittime e gli strumenti dell'oppressione. Appare quindi chiaro, a questo punto, il senso delle parole del Manzoni: gli oppressori, non si limitano a esercitare la violenza sui deboli, ma coinvolgono nelle loro logiche anche uomini prima estranei al terribile sistema dell'"ingiustizia organizzata".
Oltre però agli intellettuali che diventano uno strumento nelle mani del potere, macchiandosi di delitto, le parole dell'Autore si riferiscono anche a un altro tipo di induzione alla violenza e all'odio: quella che i quotidiani episodi d'oppressione suscitano nella povera gente. Dalla base della piramide sociale, si vedono salire infatti, oltre alle lacrime dei deboli sfruttati, anche le loro parole di rabbia, di odio, di indignazione, di vendetta. Ed è a questo proposito che il Manzoni scrive la sua massima: "I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi". Infatti, dopo aver appreso la verità, e cioè che il suo matrimonio con Lucia è impedito dal volere di don Rodrigo, la prima reazione di Renzo è quella di progettare tremendi propositi di vendetta. Improvvisamente, la figura di Renzo si stravolge, e quel giovane "pacifico e alieno dal sangue" che era, si trasforma in un aspirante assassino. Avrebbe voglia di farla finita e, pur con i suoi scarsissimi mezzi, di affogare nel sangue la boria di don Rodrigo. Nella sua mente vorticano improvvisamente turpi progetti di morte: agguati, omicidi, vendette. La sua metamorfosi, veloce e drammatica quanto disperata, colpisce il lettore e lo spinge a riflettere sulle parole dell'autore. È il circolo vizioso dell'odio e della violenza (il forte opprime il debole che impara ad odiare a sua volta) che trasforma la storia umana, e non solo quella del Seicento, in una immensa carneficina, in una grande valle di rabbia e oppressione. Ma a questo punto interviene il tema della provvidenza divina, tanto caro al Manzoni, che fornisce il modo per spezzare il circolo che aggiunge male al male.
Così come l'immagine di Lucia riporta la ragione nella mente di Renzo e lo riconduce sulla sua strada, così come la sua ferma fiducia in Dio e nella giustizia divina, riporteranno la luce nell'oscurità dei biechi pensieri di Renzo, la provvidenza promette al debole la redenzione e il riscatto dall'oppressione, a patto che sia lui, il primo a interrompere il circolo di sangue, non rispondendo alla violenza con altra violenza (nel Vangelo, Cristo stesso dice: "Se ti danno uno schiaffo, tu non rispondere, ma porgi l'altra guancia"). Lucia stessa griderà all'armata a Renzo, sentiti i suoi propositi: "No, no, per amor del cielo! Il Signore c'è anche per i poveri; e come volete che ci aiuti, se facciam del male?".
In queste parole, il Manzoni ci lascia un profondo messaggio, la fiducia nella giustizia divina come unico mezzo di ribellione alle logiche della violenza che, in ogni minimo sopruso, alimentano lo spettro del male che aleggia su tutta la storia umana.
VITA DI ALESSANDRO MANZONI
Alessandro Manzoni nasce a Milano nel 1785 da Pietro e Giulia Beccaria. Il matrimonio dei genitori non è felice , fu fatto per interesse in quanto il patrimonio dei Beccaria era in dissesto ; Giulia Beccaria lascia così il marito . Si separerà nel 1792, unendosi a Carlo Imbonati andando a vivere a Parigi. Alessandro vive dapprima in collegio, ma, dopo la morte del padre, raggiunge la madre. Gli anni nella capitale francese, dal 1805 al 1810, sono decisivi nella sua formazione culturale, che è sostanzialmente di stampo illuminista, razionalista e anticlericale. L'avvenimento più importante della sua vita sarà perciò la conversione al cattolicesimo, che avverrà intorno al 1810, due anni dopo il suo matrimonio con Enrichetta Blondel. Proprio Enrichetta lo porterà, in seguito, a rivedere i suoi giudizi critici verso la religione, tanto che nel 1810 il Manzoni decide di convertirsi al cattolicesimo, coinvolgendo in questa decisione anche la moglie. Lo stesso anno della sua conversione Manzoni torna a vivere a Milano, dove resterà poi fino alla morte, ad eccezione di alcuni mesi trascorsi a Parigi, tra il 1819 e il 1820, e di qualche breve viaggio a Firenze, nel 1827 e nel 1856.
L'esistenza dello scrittore trascorre quindi nel lavoro e nell'intimità familiare, lontano dalla curiosità e dagli impegni mondani, tra Milano e la sua villa di Brusuglio, nella campagna lombarda. Ecco perché, oltre alle date di pubblicazione delle sue opere, pochi sono i fatti da registrare della sua lunga vita, protrattasi fino al 1873 e attraversata da dolorosi lutti: la morte, nel 1833, della prima adorata moglie; poi, quella della madre, nel 1841; della seconda moglie Teresa Stampa, nel 1861; e infine di ben sei dei suoi otto figli. Tra i pochi avvenimenti della vita manzoniana si ricorderanno la partecipazione, nel 1861, dopo la nomina a senatore del nuovo Regno d'Italia, alla prima seduta del Parlamento; il suo intervento, nel 1864, alla votazione per il trasferimento della capitale da Torino a Firenze; l'accettazione, nel 1870, della cittadinanza romana, per dimostrare pubblicamente la propria convinzione della necessità della scomparsa del potere temporale della Chiesa.
Le opere giovanili di Manzoni nascono nel clima culturale milanese, dominato dalla presenza di Vincenzo Monti. Così è del Trionfo della libertà, composto dopo la pace di Luneville, nel 1801, e così è anche dell'epistola in versi l'Adda, del 1803. Più tardi, nei Sermoni (1804), Manzoni tenta i modi della poesia satirica, guardando al Parini come maestro. Il testo più maturo e signifìcativo dell'opera giovanile manzoniana è tuttavia il carme In morte di Carlo Imbonati (1805), che costituisce un documento assai eloquente della precoce e robusta maturità morale di Manzoni, della sua ricerca di un programma austero di vita.
La storia autentica della poesia manzoniana inizia però con gli Inni sacri, che testimoniano della conversione religiosa del loro autore. Dopo la conversione al cattolicesimo, Manzoni progetta una serie di dodici Inni sacri, dedicati ciascuno ad una festività della Chiesa: di essi ne porterà a termine solo cinque, i primi quattro fra il 1812 e il 1815 (La Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale, La Passione) e il quinto (La Pentecoste) tra il 1817 e il 1822. In questi Inni Manzoni non si occupa soltanto degli aspetti dogmatici e teologici del cristianesimo, ma soprattutto dei suoi aspetti morali e sociali, più direttamente vissuti dalla coscienza religiosa popolare.
Dopo la stagione degli Inni sacri, tra il 1815 e il 1822, si apre un altro lungo periodo di riflessione inferiore che porta ad un crudo pessimismo: la conquista di un " credo " religioso viene sottoposta ad un processo di discussione, mentre l'attenzione di Manzoni si apre ad una complessa visione delle ragioni dell'esistenza e si sforza di rintracciare nella storia i segni visibili di una presenza divina. In questo periodo di riflessione nascono le odi civili, e tra di esse il Marzo 1821, in cui Manzoni, celebrando l'unirsi delle forze piemontesi e lombarde contro l'oppressore austriaco (un'unione in cui egli scorge il segno della volontà di Dio), proclama il suo ideale unitario di patria, nel sogno di un'Italia " una d'arme, di lingua, d'altare ".
Più che in queste odi, tuttavia, è nelle tragedie che si può osservare l'ampliarsi della problematica manzoniana. Ciò che importa allo scrittore, nel suo teatro, è la rappresentazione di una drammatica tensione morale dei suoi personaggi: i quali, quanto più sono impegnati a combattere per un ideale generoso, tanto più appaiono poi travolti dalle leggi della forza e della violenza che dominano il mondo. È questa la situazione del Conte di Carmagnola (1820), ma soprattutto dell'Adelchi (1822), nella quale è rappresentato il momento conclusivo della guerra tra franchi e longobardi. Adelchi, figlio di Desiderio, re dei longobardi, è il personaggio-chiave della tragedia. Al fedele Anfrido confessa in un momento di smarrimento: "Il core mi comanda / alte e nobili cose; e la fortuna [il destino] / mi comanda ad inique ". Ed in ciò sta la sua personale vicenda drammatica e il problema morale che Manzoni vuoi rappresentare. La realtà si oppone al desiderio dell'uomo di operare nel giusto; ogni sua azione sfocia in una direzione opposta a quella voluta. Ed è proprio questa condizione assurda, ma tragica, in cui l'uomo viene a trovarsi, che determina quella scelta a non agire. Solo non agendo è possibile infatti non commettere il male: Adelchi, "trascinato" per una via che non ha potuto scegliere, germe " caduto in rio [cattivo] terreno / e balzato dal vento ", diviene così l'eroe romantico della non azione.
Nell'ambito di questi problemi si pone anche l'ode celebrativa scritta in occasione della morte di Napoleone Bonaparte, il Cinque maggio, del 1821. L'immagine di Napoleone pare diventare l'immagine simbolo di un uomo che, pur nell'aspirazione a portare nel mondo le idee per una vita più giusta, seminava l'Europa di stragi. Senonché, rispetto all'Adelchi, nel Cinque maggio i termini appaiono capovolti: il destino di Napoleone, svela in realtà l' "orma" di un preciso disegno provvidenziale di Dio, riassume simbolicamente il percorso stesso della storia, la quale, attraverso la sua tragica vicenda di sangue e di violenza, sfocia a giuste conquiste. E da questa concezione della storia, in cui la Provvidenza divina segna il suo cammino, nascerà il capolavoro manzoniano, I promessi sposi appunto, pubblicato una prima volta nel 1827 e, in edizione definitiva, nel 1840. La prima versione del romanzo s'intitolava Fermo e Lucia (1812) ed è molto diversa dalla seconda e definitiva edizione, pubblicata tra il 1840 e il '42. Vi è una certa differenza di contenuto (oltre che ovviamente di stile) persino tra la prima edizione del 1827 e la seconda: in quest'ultima la severità morale e religiosa è attenuata (ad es, le due figure di don Rodrigo e della monaca di Monza sono descritte con colori meno accesi).
Importanti saranno pure i suoi scritti sulla lingua. Attraverso una serie di testi (Sulla lingua italiana e Dell'unità della lingua e dei mezzi di diffonderla, ambedue del 1845; Lettera al marchese Casanova, del 1871), Manzoni elabora infatti una sua organica teoria linguistica, la quale trova il suo punto di riferimento costante nel principio che la lingua scritta deve accostarsi a quella parlata. La norma di ogni scelta linguistica non sta quindi in una conferma che venga da un uso letterario, ma semplicemente nella conferma del parlato. Su questa base teorica Manzoni discute il problema dell'unità linguistica italiana: essa, vista la diversificazione notevole della lingua parlata nelle varie regioni, non può essere raggiunta che attraverso l'uniformarsi delle singole parlate a quella di maggior prestigio, cioè alla fiorentina. Nel parlato fiorentino delle persone colte, Manzoni indica perciò la norma da seguire per l'unificazione linguistica italiana.




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